"Io non sono un
politico ... Non si permetta di chiamarmi politico".
A tanto siamo arrivati, in
Italia.
La parola politico è,
oramai, un insulto. Un insulto perfidamente calcolato da parte di chi lo
rivolge e che provoca la reazione rabbiosa di chi lo riceve.
La frase, nel caso di
specie, è di Paola Taverna, senatrice M5S contestata a Tor Sapienza. Ma non è
colpa sua. Le parole sue e quelle del suo interlocutore sono solo l'espressione
violenta di un sentire diffuso. E pericolosissimo.
Anni ed anni di cattiva
politica ci hanno disilluso, ci hanno disgustato. Ci hanno allontanato da
quello che invece ci riguarda da vicino, perchè rappresenta il contesto delle
nostre vite.
Eppure l’etimo stesso
della parola, la sua stessa struttura, racchiudono il significato profondo della
politica: la sfera pubblica. Il termine greco "politicos" viene da "Polis",
città. Nella civiltà greca, fondante di tanti aspetti del pensiero occidentale,
il termine era usato per definire ciò che apparteneva alla dimensione della
vita comune, allo Stato e al cittadino (πολίτης). La città è
il luogo dei «molti» (polloi), è anche il luogo che fa di tali individi un
insieme, una «comunità» (κοινωνία).
Ecco perché in quanto cittadini
siamo tutti politici, non possiamo non esserlo.
Per i cittadini di Tor Sapienza
e per i rifugiati che li trovano posto, la rabbia prevale sulla ragione: lo
Stato non c'è, la politica, la gestione della cosa pubblica pare averli
abbandonati.
Ma chi rappresenta le
istituzioni - in questo caso Paola Taverna - ha la responsabilità di onorare il
servizio politico, non viverlo come un insulto.
E noi tutti dovremmo resistere
alla tentazione di denigrare un concetto - la politica - perché degradati erano
quelli che spesso, questo concetto, lo hanno rappresentato.
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