Toni Servillo è Jep Gambardella nel film di Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza |
La Grande Bellezza, un film di Paolo
Sorrentino.
Anzitutto la musica. È la
musica, e più precisamente la contrapposizione tra la chiassosa dance e la
limpida vocalità liturgica, a farti capire che in questo film c’è il sacro e il
profano. C’e Roma – silente, maestosa e placida, forte della sua storia, quasi
tronfia. E ci sono gli uomini, certi uomini e certe donne che di quella
bellezza e di quella maestosità ne fanno solo lo sfondo per le loro squallide
imprese. Imprese mondane, vacue, trasparenti come un drink, sfavillanti come le
luci stroboscopiche dei locali vip che frequentano per tentare – non
riuscendoci – di dare sostanza alle loro vite.
La scena iniziale è da
girone dantesco. Corpi pacchianamente agghindati si agitano al ritmo della
musica da discoteca, si strusciano, si sovrappongono, si mescolano. Braccia,
gambe, orecchini che sembrano lampadari, labbra rifatte, capelli cotonati. La
telecamera mano a mano individua un uomo. Lo segue, gli si avvicina e, mentre
la musica rallenta deformandosi nel ritmo, ecco che ci viene presentato il
protagonista, Jep.
Jep Gambardella, scrittore
(forse) di talento poi divenuto giornalista, ma che – una volta arrivato a Roma
– viene fagocitato dalla mondanità capitolina. Fagocitato, sì, ma
consapevolmente: «Non volevo essere semplicemente un mondano – spiega la sua
voce fuori campo, in una delle sue passeggiate lungo il Tevere – volevo
diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste, io
volevo avere il potere di farle fallire». Ed è così che decide di sprecare il
tempo, di buttare via giornate che iniziano di pomeriggio, in un costante,
monotono e ripetitivo jet lag. Tempo fatto di notti, di ricevimenti e inviti a
casa, la casa che guarda al Colosseo (no, non è quella di Scajola). Di gente
improbabile, tutta preoccupata a sembrare quello che non è.
Ma sa osservare, Jep. La
sua capacità critica non è stata del tutto affossata da questa vita, Sa
scorgere angoli e colori di Roma, la corsa di un bambino e il suono delle
campane. Ed è ancora la musica sacra a fare da contrappunto ai momenti in cui
il bello ed il vero emergono, riuscendo a squarciare il velo di una non-vita. E
sa essere critico, Jep, più conscio dei suoi stessi simili, bacchettandoli
quando si prendono troppo sul serio: «Sull’orlo della disperazione, non ci
resta che farci compagnia, prenderci un po’ in giro».
Numerosi personaggi
ruotano attorno al protagonista, senza però acquisire mai una fisionomia ben
precisa. C’è Ramona, l’amica genuina, più vera di quelli solitamente
frequentati da Jep. Ma è solo una meteora. C’è l’amico poeta che non sfonda e,
sconfitto nella sua “lotta” con la Capitale, se ne torna in provincia.
E poi c’è il ricordo dell’amore
di un tempo a rappresentare le opportunità perse, il momento in cui tutto si
poteva ancora fare. Una vita in potenza che oramai vive solo nella memoria.
Sì, è tutto esagerato nel
film senza trama di Paolo Sorrentino, tutto esasperato fino al ridicolo. È un
ritratto impietoso di certa umanità, varia. Addirittura troppo caricaturale per
essere sufficientemente intensa. Le rifatte (e i rifatti) seriali, in fila dal
santone del moderno culto del fisico, fisico che deve rimanere sempre uguale a
se stesso e finisce con l’essere deformato in maschere orribili e uniformate.
Non manca – siamo a Roma! – il clero, gli alti prelati dediti più alla bella
vita che alla spiritualità, più avvezzi a disquisire di pietanze gourmet che ad affrontare i temi della fede.
Inquietante l’umanità
tratteggiata ne La Grande Bellezza. Roma, per forza indifferente, fa da sfondo
ad una messinscena grottesca. Il film è spesso surreale e visionario,
spiazzante.
Ma non del tutto privo di
speranza. Qualcuno, come sembra succedere allo stesso Gambardella, può forse
anche salvarsi. Ed è proprio grazie alla Grande Bellezza che gli appare fugace,
che Jep recupera la consapevolezza. E decide di riprendere a scrivere,
ricucendo – anche se in ritardo – con l’io di decenni prima. Perché, in fondo,
per usare le sue parole, «è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il
rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti
incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo
miserabile».
Bella recensione.
RispondiEliminaMi fa piacere che tu veda una speranza. Io non ne vedo. O meglio: non ne vedo in relazione a possibili cambiamenti.
Jep è in fondo felice della vita che conduce, perché parte dal presupposto che nulla può essere cambiato e tutto e disperazione. E dunque è meglio godersela con vista sul Colosseo!
Grazie!
EliminaSai, io una forma di redenzione l'ho vista nella sua progressiva acquisizione di consapevolezza, fino al ritorno alle radici (tramite i ricordi) e al desiderio di scrivere. Come se - dopo una lunga parentesi - riuscisse a tornare veramente se stesso.