"What makes you
think that you can treat people like you do? ", recita il neo-soul di
protesta di Donnie. Un brano forte, ispirato alla cronaca recente.
In questi tempi, infatti, sto seguendo le (preoccupanti)
vicende Usa. Dai fatti di Ferguson (Missouri) - nell'agosto 2014 viene ucciso un giovane nero e disarmato, Michael Brown - passando per altre vicende altrettanto drammatiche.
Un insieme di eventi che dimostrano come ancora oggi - anno
domini 2015, secondo mandato del primo Presidente afro-americano della storia a
stelle strisce - esista, in America del nord, un non trascurabile problema
razziale.
Episodi che fanno
tornare indietro le lancette dell'orologio.
Ma - viene da chiedersi - gli USA non erano il paese del melting-pot; non stiamo parlando dello
Stato che - dopo (molte) marce e (molto) sangue versato - era finalmente
riuscito ad impostare un sistema in cui la diversità diveniva una ricchezza,
ottimizzata e valorizzata?
La domanda è - ça va sans dire - provocatoria: nessuno è
così ingenuo da pensare che l'ideale della convivenza fosse in tutto e per
tutto aderente al vero, che fosse affermato, nell'entroterra (spesso retrivo), come
nelle coste, da sempre avamposto di sviluppo ed integrazione sociale.
Ma l'interrogativo serve, più in generale, a capire come
interpretare gli eventi cui assistiamo in questi mesi, sullo sfondo dell'immaginario costruito nei decenni dagli Stati Uniti, anche
e soprattutto al di fuori dei propri confini.
"Ferguson ha dato una mazzata all'immagine dell'America
come standard globale di eguaglianza, diritti umani e opportunità".
A scrivere è Stephen M. Walt, docente di affari
internazionali ad Harvard.
"Il trattamento dei neri americani - continua - ha
danneggiato la nostra 'mitologia'
del melting pot e con essa la
pretenziosa idea che l'America potesse costituire un modello ideale per il
resto del mondo. Questi ultimi eventi ci ricordano che il paese ancora non ha
raggiunto i livelli che pretende di inculcare agli altri".
Insomma, ipocrisia americana? O universale attitudine a
predicare bene e razzolare male?
Quello che sorprende è che nel caso di molti osservatori
americani, spiega Walt, i fatti siano percepiti esclusivamente come domestici,
interni. Senza ricadute internazionali. Invece,
c'è una forte dimensione di 'foreign-policy' negli avvenimenti del Missouri.
Anzitutto - e lo abbiamo già detto - perché tutto ciò incide
sulla "percezione" degli USA nel resto del mondo. In questo caso non si può non vedere il trade-off
tra le ambizioni esterne di Washington e la capacità di costruire una nazione
migliore in casa propria.
Parlando di concretezza, poi, c'è tutta la questione del
bilanciamento delle risorse. A fronte del dispendio di energie fuori dai
confini nazionali, quanto di potrebbe essere convertito in politica interna, a
sostegno delle (infra)strutture utili alla coesione sociale?
"Quando una questione sociale dirompente come quella di
Ferguson occupa tutte le televisioni - osserva Walt - questo avviene in parte
anche perché abbiamo speso così tanta attenzione e così tante risorse a problemi
distanti da noi, invece che concentrarci, prima e soprattutto, sulle sfide che i
nostri cittadini stanno ancora affrontando".
Se le condizioni esterne influiscono sul potere
statunitense, le condizioni interne lo generano: un'affermazione valida per
buona parte della storia americana contemporanea, in primis per la sua politica estera.
Insomma, Ferguson dice all'America che sarà più sicura,
prospera e giusta solo quando presterà più attenzione dentro ai suoi confini.
Evitando - ce lo auguriamo tutti - di uccidere i propri cittadini.
Evitando - ce lo auguriamo tutti - di uccidere i propri cittadini.
Le dichiarazioni di Walt sono tratte dal suo articolo su Foreign Policy (clicca qui).
Ascolta il brano di Donnie: qui.
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