Jem, Atticus, Scout. Dill, Calpurnia, Boo Ridley, Mrs Maudie.
Alcuni di voi riconosceranno questi nomi, li sentiranno risuonare familiari.
Per chi ha letto "To kill a mockingbird" di Harper Lee (in Italia tradotto - non so perché - "il buio oltre la siepe", invece di "Uccidere un pettirosso") è difficile dimenticarli.
È difficile perché sono personaggi unici, protagonisti di un racconto unico.
Ho letto questo libro numerosi anni fa, tant'è vero che ne posseggo l'edizione scolastica. Ho deciso di leggerlo di nuovo.
Seguo sempre con grande attenzione la cronaca americana e il prepotente ritorno sulle prime pagine della questione razziale, in particolare, di quella che potrebbe essere definita la "questione nera", mi ha turbato.
Il passato che non passa, quello della (dis)uguaglianza tra neri e bianchi. Una lunga marcia che sembra ancora incompiuta.
A Ferguson, dove il teenager afroamericano Mike Brown è stato ucciso da sei colpi di pistola esplosi da un ufficiale di polizia. Ma c'è anche Walter Scott, colto a bruciapelo da colpi di arma da fuoco alle spalle in quel di Charleston, stesso luogo dell'ultimo, in ordine di tempo, drammatico attentato alla chiesa nera.
Tutti eventi degli ultimi mesi, degli ultimi anni. Legati da un filo rosso: quello dell'odio razziale, della mai sopita discriminazione di trattamento verso i neri d'America.
"Black lives matter", è diventato - oltre ad un hashtag molto popolare su Twitter - il nuovo grido dei neri e non solo, di tutti coloro che non accettano e mai accetteranno l'esistenza di disparità di trattamento basate sul colore della pelle e l'appartenenza sociale. "I can't breath", la frase pronunciata da Eric Garner, aggredito dalla polizia a New York e morto poco dopo all'ospedale , è diventato il grido di tutti, di dolorosa compartecipazione alla gravità di certi eventi.
Cercavo allora uno strumento di comprensione di conoscenza. Qualcosa che potesse confortarmi nell'analisi di questi fatti di cronaca, gravi e grotteschi insieme. Ho ripensato allora a questo testo di Harper Lee, i cui ricordi erano sfumati, ma che percepivo come fortemente significativo. Niente di meglio, allora, che rinfrescare la memoria. Anche perché i libri, si sa, non sono mai letti una volta per tutte. Quando ne riapri uno, ogni volta che sfogli di nuovo le sue pagine, è come se fosse la prima, sempre diversa. Cambia il contesto, sei cambiato tu che lo leggi: è sempre un'esperienza nuova.
Jim e Scout sono bambini, figli di un distinto avvocato (Atticus Finch) nella provincialissima provincia di Maycomb. Li vediamo crescere, nel corso del romanzo. Li vediamo passare dai giochi di infanzia all'incontro-scontro con temi spinosi che attraversano la loro comunità. Imparano a conoscere razzismo e discriminazione attraverso la loro stessa storia di famiglia: quando il padre accetta di difendere Tom Robinson, giovane "nero" ingiustamente accusato di violenza sessuale nei confronti niente meno che di una "bianca".
Jim e Scout Imparano a soffrire per le ingiustizie, oltre che a temere per le sorti del loro padre, esposto all'odio di chi non accettava che si potesse anche solo difendere le ragioni di un "negro".
"Se non dovresti difenderlo, perché lo difendi? - chiede Scout al padre.
"Per vari motivi" - disse Atticus - "Il principale è che non lo facessi non potrei andare più in giro con la testa alta, non potrei rappresentare la contea e non potrei nemmeno dire a te o a Jem: fa questo e non fare quello".
"Voi dire che se non difendi quell’uomo, Jem e io non potremmo darti retta?"
"Più o meno".
L'avvocato Finch riuscirà, alla fine, a dimostrare l'innocenza di Tom Robinson, ma l'uomo sarà ugualmente condannato a morte. Un finale dove pregiudizi e verità si mescolano.
E dove emerge, forte, l'umanità di questi personaggi, padre a figli.
Impariamo ad affezionarci a loro e quando il libro finisce ne sentiamo la mancanza.
Ma sono con noi quando leggiamo increduli e angosciati le notizie di un'America ancora preda di sentimenti di odio. Irrazionali, ingiusti ed inumani.
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