Docente universitario e giurista di fama
internazionale, Stefano Rodotà l'Europa la conosce molto bene. Noto al pubblico
italiano anche per alcuni prestigiosi incarichi – fra i quali il più recente
come Garante per la privacy – all'interno delle istituzioni comunitarie Rodotà
ha fatto parte del gruppo sull’etica per le scienze e le nuove tecnologie; è
stato presidente dei Garanti dell'Ue e presidente del comitato scientifico
dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali (della quale continua a far
parte). Insieme ai giuristi di altri Paesi europei, è stato soprattutto uno
degli estensori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Sguardo limpido e sorriso garbato – è lontana la boria di certi accademici – il professore si è reso disponibile ad una
conversazione a tutto tondo.
Professor Rodotà, quale è la
sua idea di Europa?
Durante la mia esperienza ho
maturato una convinzione: l’Europa ha una storia, una tradizione e un’identità
fondate sulla costruzione moderna dei diritti fondamentali. Difficile
immaginare che diventi una superpotenza militare. Faticoso il percorso di
costruzione di un soggetto politico davvero unitario (anche a fronte di una
forza economica che richiede un coordinamento di strategie). A fronte di tutto
ciò, è comunque la regione del mondo – e come tale è percepita fuori dai suoi
confini - dove è più elevata la tutela dei diritti fondamentali. Ecco, dobbiamo
diventare consapevoli del fatto che l’Europa custodisce un modello sociale dei
diritti.
E qual è questo “modello sociale dei diritti”?
Uno dei punti significativi della
cultura giuridica europea è stato il superamento della distinzione tra le varie
generazioni dei diritti. All'interno dell'Unione, insomma, i diritti si
“parlano tra loro”: e quelli sociali non sono meno importanti di quelli civili
e politici. La chance dell’Europa sta proprio nello sviluppo
di questa cultura.
Quindi, in un certo senso, un gigante economico - ma ancora
un nano politico - che deve puntare sui diritti per trovare il suo
spazio nello scenario internazionale...?
Esattamente: la grande carta da
giocare è proprio questa.
Un esempio concreto?
Avrei voluto che all’indomani
dell’apertura del contenzioso tra Google e la Cina, ci fosse stata una parola
dell’Europa. A prima vista sembrerebbe un problema estraneo all’Unione, ma non
lo è: in quel momento è stata aperta di fronte al mondo la questione del
diritto di espressione su internet. Ecco, se in quel momento il discorso fatto
da Hillary Clinton per rassicurare i due miliardi di utenti della rete fosse
venuto dall’Ue, questo avrebbe avuto per un profondo significato 'identitario'.
La Carta dei diritti che ruolo
ha svolto?
Determinante. Quando al Consiglio
europeo di Colonia del 1999 l’Europa ha deciso di darsi una Carta dei diritti,
lo ha fatto sulla base di una dichiarazione molto impegnativa: si voleva fare
del riconoscimento dei diritti fondamentali la condizione per una “nuova
legittimità” del processo di integrazione. 'Legittimità' è una parola forte: ma
rispecchiava appieno la convinzione che, oramai, la via dei soli diritti
economici e di mercato non fosse più sufficiente a sostenere la costruzione
europea.
Cosa cambia oggi che la Carta
è divenuta, assieme al trattato di Lisbona, vincolante?
Dalla sua proclamazione, avvenuta
nel 2000, la Carta, pur non avendo valore giuridico obbligatorio, è stata già usata: giudici ordinari, Corti costituzionali,
ma anche le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo, vi hanno spesso fatto
riferimento. Oggi che finalmente ha acquisito lo stesso valore giuridico dei
Trattati, rappresenta una grande occasione per l’evoluzione della stessa Unione
europea: se i cittadini vi si appelleranno, rafforzeranno la dimensione dei
diritti fondamentali e la Corte di giustizia potrà diventare una sorta di
“Corte costituzionale europea”.
Il nostro Paese sembra essersi
perso per strada l’europeismo che lo caratterizzava e che contribuì a renderlo
uno degli Stati fondatori dell’allora Comunità europea. E' davvero così?
In effetti, in questi ultimi
tempi l’attenzione verso l’Europa si è attenuata. L’Italia è stato un Paese
determinante per la costruzione europea ma oggi non ha più questo ruolo.
Politicamente non attribuisce all’Europa il valore che meriterebbe e alcune
forze politiche lo hanno anche detto esplicitamente. Questo provoca una grave
caduta di interesse a livello istituzionale. Più volte l’Europa ci ha “tirato
per i capelli”, spesso proprio in tema di diritti (e credo che lo dovrà fare
ancora).
In quali occasioni,
concretamente?
L’Italia si è dimostrata spesso
recalcitrante rispetto alle regole europee. Solo per fare un esempio: a causa
di numerosi contro-interessi, non voleva dotarsi di una legislazione sulla
privacy. Alla fine lo fatto, perché senza quella legge non sarebbe stato
possibile applicare il trattato di Schengen, che garantisce la libera
circolazione delle persone. Morale: nuovi importanti diritti a favore dei
cittadini italiani sono stati 'acquisiti' proprio grazie alla spinta
dell’Europa.
Sarebbe necessario, per quanto ci è possibile, avvicinare l’Unione ai
cittadini. Cosa andrebbe fatto, a suo parere, in questa direzione?
Non è facile. Bisogna innanzitutto sfruttare tutte le opportunità
di partecipazione. Oggi il Trattato di Lisbona offre ai cittadini il
diritto di sottoporre proposte legislative alla Commissione europea. Ma ancora,
ad esempio, gli avvocati dovrebbero utilizzare quanto più possibile la Carta
dei diritti: l’Europa acquisterebbe così agli occhi dei cittadini il valore
aggiunto di soggetto che li tutela. La cultura e i mezzi di informazione,
infine, dovrebbero cercare di trascurare meno i temi europei.
Come legge il fallimento del
progetto costituzionale europeo?
Sono stati fatti due errori nella
stesura del testo costituzionale, l’eccessiva estensione e la scarsa
convinzione. A ciò si sono aggiunte gravi responsabilità politiche come quelle,
ad esempio, della sinistra socialista francese. Ma la conclusione non è
necessariamente negativa: anche il Trattato di Lisbona, pur non chiamandosi
Costituzione, contiene un grande potenziale innovativo: è nostra responsabilità
culturale cercare di sfruttarlo al massimo. Voglio essere ottimista e sperare
che questo succeda.