Il Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso (al centro) |
L’aula 5 della Facoltà di Scienze politiche è colma. Stracolma. C’è una bella energia, un’aria di partecipazione e di impegno, un non so che di vitale. Sono tantissimi gli studenti che oggi, in una Perugia assolata, ascoltano attenti le parole di Pietro Grasso. Il Procuratore Nazionale Antimafia ci tiene ad incontrare i giovani che, spiega, incarnano la speranza nel cambiamento. Lui che, proprio da giovane, anzi da giovanissimo, decise che il suo sogno sarebbe stato quello di diventare magistrato. «Sono cresciuto in una Palermo le cui strade erano lastricate dal sangue dei cadaveri: a 24 anni ero magistrato. Volevo capire il perché, il perché di quelle vittime». «A 25 mi sono sposato e a 26 avevo dei figli», aggiunge soddisfatto. Pretore a Barrafranca prima, procuratore al Tribunale di Palermo poi, dal 2005 è a capo della Direzione Nazionale Antimafia. È il “maxiprocesso” (1986 -87) la vera e propria svolta nella vita (da quel giorno è sotto scorta) e nella carriera di Pietro Grasso. E in quell’occasione redige una sentenza di circa 7 mila pagine, scritte in 8 mesi di durissimo lavoro, «perchè non si trattava semplicemente di processare l’associazione, ma tutti i delitti che questa aveva perpetrato in ben dieci anni».
Ma
che cosa è la mafia? Quale è la
sua struttura, come è organizzata, come vengono intessute le sue relazioni
esterne? Guai a ritenerla mera realtà romanzesca sul modello de Il Padrino,
spiega Grasso, men che meno problema etnico della sola Sicilia («la linea
della Palma si sposta sempre più verso nord», avvertiva Leonardo Sciascia). «La mafia – continua il Procuratore –
non è solo un’organizzazione criminale, è qualcosa di più», la Mafia è furba
e approfitta, rapace e avida, delle assenze dello Stato: si sostituisce alla giustizia, fornisce servizi,
dà lavoro. Una sorta di “welfare criminale”, al posto di quello legittimo che –
in molte parti del Paese – tarda a venire o non è mai arrivato. E poi c’è la
mafia contemporanea, quella delle reti di affari, sempre più difficile da
decifrare, in quanto sfugge all’elementare rapporto corrotto-corruttore. È il tempo delle società multiservizi e
il mafioso – abbandonati lupara e coppola – indossa giacca, cravatta e
ventiquattrore.
Numerosissimi gli studenti alla lezione di Piero Grasso |
Immancabili
e numerosissimi i riferimenti – intensi ma privi di retorica – ai colleghi Falcone
e Borsellino: «hanno posto le basi
per la lotta alla criminalità organizzata. È grazie a loro se oggi
cominciano ad arrivare i primi risultati». Ma ancora molta è la strada da fare. Già perché, come una tela di
Penelope, la lotta alla mafia è fatta di slanci in avanti e battute d’arresto:
per funzionare, deve essere continua e continuativa e vince solo se viene
valorizzato il lavoro che altri hanno svolto in precedenza.
Oggi
più che mai – è l’appello genuino di un uomo che crede nella giustizia – serve una
cultura della legalità, che non
è solo rispetto delle regole, ma soprattutto sistema di principi, ideali e
valori. Servono (buone) utopie e fiducia nel cambiamento. Al bando i falsi miti
e la rassegnazione.
«Perché la legalità è la forza dei deboli». E può essere dirompente.
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