Marzo
1993: Luca Leoni Orsenigo, deputato Lega Nord, sventola nell’aula di
Montecitorio un cappio, nell’esplicito riferimento alla necessità di fare
pulizia di una classe politica corrotta
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«La lega avanzerà, baionette in canna, paese per paese, villaggio per villaggio, per sfidare la partitocrazia», sbraita un Sentur urlante dal palco di Pontida. Siamo nel lontano 1995 e la Lega nord – formazione territoriale per eccellenza – è, eccome, un partito di lotta, imbevuto di antipolitica. Poche le parole d’ordine, riconoscibili e convincenti quanto velleitarie e demagogiche: populismo, autonomismo ed etnoregionalismo. Il tutto condito con una buona dose di intolleranza sociale. Ma tant’è.
Ed è proprio
sulla crisi dei partiti che il “Carroccio prima maniera” costruirà le sue
fortune: onesti contro corrotti, lavoratori contro fannulloni della politica e
delle istituzioni, gente del nord contro “terùn”, precedendo gli Stella e
i Rizzo nel denunciare i privilegi della Casta. Prima di decidere di goderne.
Di nascosto, ovvio.
Già perché
la Lega non ha esitato ad entrare – più volte – nelle tanto disprezzate stanze
dei bottoni di “Roma ladrona”, fino ad occupare poltrone importanti. «La dittatura
partitocratrica», ad un certo punto, non fa più ribrezzo e si vola alla
conquista delle istituzioni, nazionali e locali. Fatti due conti, in fondo,
conviene.
Ed oggi che
Davide Boni – presidente del già martoriato Consiglio regionale lombardo – è indagato
per corruzione (sì, proprio lui che cavalcò, in perfetto stile leghista, la
cosiddetta "questione morale”), il doppio volto della Lega è più evidente
che mai.
E se le accuse saranno provate, non si tratta di una marachella individuale,
di un singolo che – sbagliando, sia chiaro – si fa tentare dal luccichio dei
facili denari. Qui è in gioco proprio il reato che caratterizza la peggiore
partitocrazia, quella in cui la corruzione è fatta sistema. E tangenti e
mazzette sembrano essere modalità ordinarie di gestione della cosa pubblica.
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