Ha aperto i battenti proprio ieri, a Perugia e Assisi, FestArch 2012, quarta edizione del Festival internazionale dell’Architettura organizzato dalla nota rivista di design “Abitare”. Per la seconda volta in Umbria, la kermesse vedrà sfilare numerose “archistar”, nomi celebri nel panorama internazionale in fatto di design, urbanistica e architettura, ma anche giovani talenti creativi. Per l’occasione, allora, ho rispolverato “Anticittà” (Laterza, 2011), il bel libro di Stefano Boeri, architetto e urbanista, assessore alla cultura al Comune di Milano, nonché mente del Festival.
Ma che cosa è
“l’anticittà” coniata da Boeri? È un modo – profondo e provocatorio quanto
basta – per descrivere la caratteristica dominante delle città odierne, dove
una periferia, astratta e simbolica, lungi dall’essere mera entità fisica e
spaziale, si è pericolosamente infiltrata ovunque, «svuotando di senso la
nostra vita urbana». Siamo soliti
intendere la periferia come margine esterno della città? Sbagliato. La
periferia – sostiene l’architetto
milanese – non è più (o, forse, non è mai stata) un concetto geografico: non è un territorio riconoscibile nel suo essere
distante e separata dal centro storico delle nostre città. La periferia è
ovunque. O meglio, è dove c’è l’anticittà, ossia dove si afferma degrado, povertà e assenza di
servizi. «Pensate a Napoli e
Genova – scrive l’architetto – o, ancora, a Barcellona e a Marsiglia: la
“periferia” è in pieno centro».
Le nostre
(anti)città appaiono allora più che mai disgregate: non più insiemi organici e coesi, ma accozzaglia
di «oggetti giustapposti». Nella dispersione del territorio, abbiamo creato un
arcipelago di sistemi chiusi, forti e impenetrabili», quasi delle “monadi” («il
centro commerciale, l’area terziaria, i quartieri ghetto e le enclave di lusso:
le nostre aree urbane somigliano oggi ad un territorio a macchia di leopardo».
Le conseguenze? «Innanzitutto una fortissima spinta alla frammentazione. E poi dentro alle città si è persa quella
varietà sociale che significava convivere tra diversi nella stessa porzione di
spazio». E, come se non bastasse,
forme di alienazione, per cui persone, giovani, anziani vengono, di fatto,
tagliati fuori dalla vita culturale, economica e istituzionale. «Dove le
relazioni di scambio non esistono». L’omologazione ha la meglio sulla
differenziazione e la rassegnazione domina sulla speranza. In uno spazio così organizzato, non c’è più
nemmeno mobilità (sociale): «ogni prospettiva di miglioramento della propria
traiettoria di vita viene meno», spiega Boeri. E – a quel punto – il passo
verso l’antagonismo ribelle, la rivolta radicale e l’insurrezione è breve.
Brevissimo.
Occorre allora “fare
città”. Come? Con la (buona)
politica. «Politiche sono le leggi che disciplinano il welfare, gli incentivi
alle famiglie, la redistribuzione dei redditi, la promozione di comunità di
impresa che offrano occasioni di scambio e di mobilità sociale». L’urbanistica
deve ristabilire un rapporto con la politica, le politiche pubbliche devono
essere intelligenti, ascoltare istanze e bisogni, promuovere la relazione e lo
scambio.
Tema
affascinante e profondamente “politico”, nel senso (vale la pena specificarlo)
etimologico del termine, di gestione della cosa pubblica. Architettura e politica, la strana coppia? Solo
apparentemente. Già perché, in fondo, le due “arti” sono sempre state
intrecciate, eccome. Soprattutto oggi, che i grandi temi della politica sono
quelli della sostenibilità, dell’energia, della questione ambientale, delle
rinnovabili e della riorganizzazione dello spazio sociale. Cosa c’è – in fin
dei conti – di più politico che organizzare e gestire lo spazio in cui viviamo?
Stefano Boeri, “Anticittà”, Laterza, 2011, € 12
Nessun commento:
Posta un commento