Al centro, un grande
cratere. Intorno, un groviglio, un ammasso di lamiere, calcinacci, vetri,
macerie. Pezzi di cose indefinite. Dentro quell’inferno, dove qualcuno era
stato dilaniato, o esalava l’ultimo respiro, e altri miracolosamente scampavano
alla morte, c’era il loro papà, il giudice Rocco Chinnici.
Appena cinque minuti
erano trascorsi da quando lui aveva dato loro il «buongiorno». Era entrato
nelle loro camere, come sempre, con il vassoio del caffè. Un buffetto sul viso
e il vocione familiare, rimasto ancora a rimbombare tra le pareti squassate
dall’esplosione di un’utilitaria, una Fiat 126 verde, una qualsiasi, ma
imbottita di tritolo: «Arrivederci ragazzi, a più tardi».
Non l’avrebbero mai più visto, con la sua figura
imponente di omone di 58 anni, all’apparenza burbero, ma in realtà «un pezzo di
pane».
Estratto da "Così non si può vivere. La storia mai raccontata del giudice che sfidò gli intoccabili", De Pasquale, Iannelli - Castelvechi editore, 2013
Il 29 luglio del 1983 la mafia uccideva - nel primo attentato con tritolo - il giudice Rocco Chinnici, padre del Pool Antimafia e ideatore del metodo di indagine che mette al centro soldi e conti correnti, tracce - per troppo tempo trascurate - che conducono al potere mafioso, e alla politica, con cui spesso questo è interrelato.
Con lui persero la vita due uomini della scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e
Stefano Li Sacchi, il portiere del palazzo dove abitava il giudice.
Aveva chiamato a lavorare con sé, tra gli altri, Falcone e Borsellino e aveva compreso, tra i primi, le trame che, nell'azione mafiosa, univano crimine, potere e affari.
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