È
stato pubblicato oggi il rapporto annuale di Amnesty International sulla pena
di morte. I dati si riferiscono al 2013. «Il percorso a lungo termine
è chiaro: la pena di morte sta diventando un ricordo del
passato», spiega Salil Shetty, segretario generale di Amnesty
International. «Sollecitiamo tutti i governi che ancora uccidono in nome
della giustizia a imporre immediatamente una moratoria sulla pena di morte, in
vista della sua abolizione». Nonostante i passi indietro del 2013 (Iran ed
Iraq, ad esempio, hanno determinato un profondo aumento delle condanne a morte
eseguite nel corso dello scorso
anno), negli ultimi due decenni vi è stata una decisa diminuzione del numero
dei paesi che hanno usato la pena di morte e miglioramenti a livello regionale
vi sono stati anche recentemente.
Perché
non c’è che dire: la pena di morte è e rimane la massima negazione dei diritti
umani, uccisione premeditata e a sangue freddo di uomini e donne da parte dello
Stato. Una punzione crudele, inumana e degradante. Eseguita in nome della
giustizia.
E allora riprendo un volume - tra quelli a me più cari - e cerco tra le pagine, sfogliando tra capitoli e titoli di un italiano desueto. Finché trovo le righe che cercavo.
«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio".
Certo, chi scrive queste righe è un intellettuale illuminato, uno che precorre i tempi. È uno di quei pochi uomini che la storia ogni tanto ci regala, che sembrano saltare secoli e anticipare un sentire ancora lungi dal divenire comune e condiviso.
Chi scrive queste righe è Cesare Beccaria, nel suo Dei delitti e delle pene, pubblicato a Livorno nel 1764.
Eppure ancora oggi, esattamente 250 anni dopo, il suo insegnamento è ancora - in molte parti del mondo ormai globalizzato - un'utopia.
E allora riprendo un volume - tra quelli a me più cari - e cerco tra le pagine, sfogliando tra capitoli e titoli di un italiano desueto. Finché trovo le righe che cercavo.
«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio".
Certo, chi scrive queste righe è un intellettuale illuminato, uno che precorre i tempi. È uno di quei pochi uomini che la storia ogni tanto ci regala, che sembrano saltare secoli e anticipare un sentire ancora lungi dal divenire comune e condiviso.
Chi scrive queste righe è Cesare Beccaria, nel suo Dei delitti e delle pene, pubblicato a Livorno nel 1764.
Eppure ancora oggi, esattamente 250 anni dopo, il suo insegnamento è ancora - in molte parti del mondo ormai globalizzato - un'utopia.
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