giovedì 10 novembre 2011

L'ambasciatore



Dovremmo, in quanto italiani, ringraziare Roberto Benigni. Già perché se c’è un ambasciatore d’Italia che è in grado – anche in questi tempi bui – di fare un elogio così appassionato e vero al Bel Paese, be’, questo è proprio il grande comico e attore toscano.
Dopo un ingresso lento (ha le stampelle) ma non meno trionfale (gli tributano una standing ovation), non potevano mancare – prima di passare alla lettura del XXVI Canto dell’Inferno di Dante – i riferimenti alla cronaca politica. Scoppiettanti: «chiedo scusa per l’ingessatura ma purtroppo mi è venuta addosso una persona che in Italia ha fatto un passo indietro», inizia, strappando fragorose risate al pubblico presente a questo momento celebrativo dei 150 anni dell'Unità d'Italia presso le istituzioni europee. E poi – mescolando passato e presente, storia e attualità – parla dell’Italia. O meglio, ne fa un’ode.
E sfodera subito “l’arma” più potente, quella che tutto il mondo ci invidia, che ci ha dato grandi soddisfazioni (e ce le darebbe tuttora, se solo sapessimo farne tesoro): la cultura. Che, caso unico nell’umanità, è nata prima dello stato. La Gioconda, il David, la cupola del Brunelleschi, ma anche la musica, l’affresco e la prospettiva, e – ovvio – Dante: c’è tanto nelle parole di Benigni. Tutto il trionfo di quell’eccellenza italiana che nei secoli ha invaso il mondo «che è una gioia che mi prende il cuore e l’anima!».
«Anche quando tutto era morte», un italiano, San Benedetto da Norcia (patrono d’Europa) ha messo insieme due parole, “ora” e “labora”, rivoluzionando scienza, agricoltura, filosofia, poesia. Quando in tutto il mondo era carestia e devastazione, gli italiani hanno aperto le porte della modernità: oggi abbiamo lo spread alle stelle ma – senza uno stato e senza una lingua – abbiamo inventato le banche, il credito, la cambiale (e «chi glieli va a richiedere i soldi a Edoardo I d’Inghilterra che non ce li ha mai ridati!»). Ma anche la modernità di Giotto, primo artista pagato per le sue creazioni o Boccaccio intellettuale retribuito per scrivere saggi.  
Ma non è stata sempre e solo gloria. «Voi neanche potete immaginare quante ne abbiamo passate», quanti saccheggi (Normanni e Lanzichenecchi), quanta disgregazione («della repubblica romana, dell’impero»). «Pensate a Carlo Magno, che in tempo di pace si è portato via mezza Roma, o a Napoleone, che in guerra, ha razziato quanto poteva». E poi mille lacerazioni interne, contrasti e minacce: «anche all’Unità, una cosa da non credere».
Ma, qui sta il punto, ne siamo sempre venuti fuori. Perché per Benigni l’Italia non è solo il paese del Rinascimento e del Risorgimento (e già non è poco) ma soprattutto della resurrezione. «È un miracolo permanente».
Gli applausi punteggiano tutto l’elogio, a sottolineare i passaggi più veri e più intensi. Come se ogni italiano, ascoltandolo, riscoprisse cose – conosciute, certo – ma forse troppo spesso dimenticate. E sommerse dalla miseria di oggi. Può sembrare un atteggiamento da vecchia potenza in declino guardare in dietro e consolarsi con le glorie del passato. Forse. Ma tutto ciò è nel nostro dna. E fa bene parlarne. Per poter ripartire. Anzi, per risorgere. 


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