C’è tutto nel Lincoln di Steven Spielberg. C’è la figura istituzionale
che si intreccia – più di quanto si possa credere – con l’uomo privato, con le
sue difficoltà, con i suoi affetti e con le sue relazioni familiari. C’è
l’annosissima questione se la bontà del fine debba necessariamente comportare
la liceità dei mezzi per raggiungerlo. C’è la politica, tanta politica. Che si
fa verbo, parola, per persuadere, convincere, coagulare il consenso. C’è
quell’arte oratoria, ridondante e retorica, spesso affilata, tipica delle
assemblee ottocentesche. Ma soprattutto c’è la libertà. L’America di quegli
anni era completamente lacerata attorno al significato da dare a questa
sterminata parola: da una parte, i sudisti confederati che rivendicavano la
“libertà di rendere schiavi gli altri”, dall’altra il Nord, che smaniava di
presentarsi al mondo come patria del progresso e delle opportunità, dove anche
i neri dovevano essere liberi. Due mondi – il nord e il sud – diversi, tanto diversi da farsi la
guerra. Fatto di centri manifatturieri, commerciali e finanziari il primo,
incentrato sull’agricoltura il secondo: cotone, tabacco, riso. E soprattutto
schiavi, la cui manodopera non pagata era indispensabile per le colture.
L’elezione dell’abolizionista Lincoln alla Casa Bianca nel 1860 fu la goccia
che fece traboccare il vaso. La parola passò alle armi per cinque lunghi,
lunghissimi anni. Ma non è di questo che sceglie di parlare Spielberg. La
guerra c’è, si percepisce (molto) e si vede (poco), ma siamo quasi alla fine.
Lincoln è appena stato rieletto al suo secondo mandato ed è più intenzionato
che mai a fare approvare dal Congresso il tredicesimo Emendamento, contenente
l’abolizione della schiavitù: nel 1862 il Presidente aveva già proclamato, con
una legge di guerra, l’emancipazione dei neri, che andavano così ad ingrossare
le fila dell’esercito nordista, ma – senza trasposizione in Costituzione – il
provvedimento non avrebbe superato la fine delle ostilità. Non è affatto
semplice, per Lincoln, ottenere i voti necessari. Occorre un lavorio politico
di cesello, al limite (e spesso oltre) della legittimità. Costantemente stretto
tra pragmatismo e tensione ideale. È così che si scambiano voti con incarichi
governativi, più o meno di prestigio ma, si sa, bisogna accontentarsi. E
spesso, in questi casi, occorre scendere a compromessi. Anche con se stessi.
Come nel caso di Thaddeus Stevens, capo della minoranza radicale dei
repubblicani. Fervente sostenitore dell’eguaglianza naturale degli uomini,
Stevens è costretto a mentire di fronte ai deputati, sostenendo di credere alla
sola eguaglianza “di fronte alla legge”. Solo così riesce ad ottenere
l’appoggio della maggioranza del partito. Alla fine, la sospirata vittoria dei
numeri arriva. E con essa un passaggio storico: la schiavitù è finita. Certo,
di acqua sotto i ponti ne dovrà ancora passare molta prima del completo
riconoscimento dei diritti civili e politici per gli afro-americani (lo stesso
Lincoln si era opposto a che venisse loro concesso il suffragio e ci vorrà
ancora un secolo, un movimento, un reverendo ed un sogno, per l’approvazione
del Civil Rights Act e del Voting
Rights Act).
È profondamente americano,
questo film, e ci racconta di un paese dalle mille contraddizioni, che – a me
che scrivevo una tesi sulle origini della democrazia statunitense e sulle
differenze con quella europea e che leggevo, avida, “La Democrazia in America”
di Alexis de Tocqueville – ha sempre affascinato. In “Storia della libertà
americana”, Eric Foner si esprime così: «Lincoln batteva sul concetto che la
schiavitù fosse incompatibile con gli ideali dei fondatori e con la missione
storica della nazione nei confronti del mondo». In altri termini, «la schiavitù
violava le premesse essenziali della libertà americana: libertà personale,
democrazia politica, e opportunità di migliorare le proprie condizioni di
vita».
È proprio per questo che, in quel preciso momento, non
c’era cosa migliore che il Governo “of the people, by the people, for the
people” potesse fare: riaffermare, a tutti i costi, la dignità umana.
Nessun commento:
Posta un commento