martedì 27 novembre 2012
martedì 20 novembre 2012
Quando la campagna è qualunquista
Ho sempre condiviso gran parte delle battaglie di Greenpeace. Come non sostenere la “lobby buona” quando convince le multinazionali a non distruggere più le foreste per l'olio di palma o le aziende hi-tech ad eliminare gradualmente le sostanze tossiche dai propri prodotti?
Ma,
questa volta, lo slogan proprio non va.
Ieri, infatti, è stata lanciata la nuova campagna “Io non vi voto”, con
relativa piattaforma web www.IoNonViVoto.org.
A
Roma sono spuntati come funghi manifesti raffiguranti i volti dei politici
nostrani. E una domanda “sei amico del petrolio e del carbone?” La mission della campagna è una e chiara (e ci piace): la
sfida alla politica fossile. Ma perché inneggiare alla già dilagante
antipolitica?
Il
difetto non è, quindi, nella sostanza, ma nella forma. «Non è un messaggio astensionista – scrive
Greenpeace, quasi a mettere le mani avanti rispetto ad uno slogan di cui forse
lei per prima non è convinta – ma l'occasione giusta e imperdibile per porre
delle condizioni chiare e inequivocabili ai candidati alle prossime elezioni».
E
invece, a pochi giorni dalle primarie del centro-sinistra, il messaggio sembra
più che mai stonato. In un momento in cui c’è forte bisogno di recuperare la
buona politica, la partecipazione, il civismo, inneggiare alla sterile contrapposizione pare davvero l’ultima cosa
di cui l’Italia ha bisogno.
Sarà
pur vero – e lo è – che il panorama politico italiano attuale non offre
entusiasmanti prospettive. Sarà pur vero – e lo è – che molti dei nostri
politici sono spesso stati colti con le mani nella marmellata di interessi
sporchi, corrotti e controproducenti, anche e soprattutto in tema ambientale ed
energetico. Ma un messaggio del genere, generico e generalizzante, non aiuta
a salvare quello che c’è da salvare, scavando un fossato sempre più profondo
tra cittadini e gestione della cosa pubblica.
Senza
contare che il motto fa di tutt’erba un fascio: tra i politici “additati” c’è
anche Nichi Vendola, la cui attenzione per i temi dell’energia pulita, delle
rinnovabili e della Green Economy è proverbiale (basti leggere il programma del
Governatore della Puglia, alla voce “Energia”: «la diffusione delle energie
rinnovabili elettriche può trasformare l’Italia in un paese libero dal ricatto
– politico, oltre che economico – di carbone ed energie fossili»).
lunedì 19 novembre 2012
Incontri
Quando due Premi Nobel per
la Pace si incontrano, non può che essere un bello spettacolo. E proprio un bello
spettacolo – carico di speranze e di buoni significati – è andando in scena in
queste ore in Birmania, dove una minuta e coraggiosa signora si è incontrata
con un possente e determinato uomo di colore. Aung San Suu Kyi e Barack Obama. L’una, leader dell’opposizione birmana alla
dittatura, per anni prigioniera, oggi parlamentare; l’altro, neo-rieletto
presidente degli Stati Uniti.
Il luogo dell’incontro è
più che mai simbolico, quella "casa sul lago" a Rangoon, prigione di
Aung San Suu Kyi per ben quindici anni.
Barack Obama, ancora una
volta, fa la storia: è il primo presidente americano a visitare il paese
asiatico. Lo fa «per sostenere il
cammino della Birmania verso la democrazia». E lo fa anche per lei: «un'icona della lotta per la democrazia, che ha ispirato
tante persone e non solo nel suo paese: mi ci metto anch'io», spiega Obama alla folla di giornalisti e di comuni
cittadini che li ascoltano.
Il paese,
governato dai militari fino agli inizi del 2011, attraversa ora una delicata fase
di transizione.
Molte le riforme compiute, ma molta è anche la strada che resta ancora da
percorrere. Aung San Suu Kyi è cauta:
«ci attendono ancora anni difficili. In questo
momento è importante non essere ingannati dal miraggio del successo».
Entrambi premi Nobel per
la pace, dicevamo. Lei nel 1991, “ per la sua battaglia non violenta per la democrazia e i diritti
umani”, si legge nella motivazione ufficiale. Lui nel 2009, al termine del suo
primo anno di presidenza, “per i suoi straordinari sforzi per rafforzare la
diplomazia internazionale e al cooperazioe tra i popoli”.
L’abbraccio finale tra i
due è intenso, una di quelle immagini destinate a durare.
sabato 17 novembre 2012
martedì 13 novembre 2012
Perché la rielezione di Obama fa bene all’Europa
Photo by: Scout Tufankjian for Obama for America |
Con Obama ha vinto la politica che ascolta anche gli altri. E non potrebbe essere altrimenti. L’America, oramai da tempo, non può più fare da sola, come si pensava – e in molti ci avevano creduto – qualche decennio fa. Certo l’Europa, per molti versi malconcia e azzoppata, non è, ad oggi, un punto di riferimento: diversi sono gli scenari che attirano le attenzioni d’oltreoceano. Molto probabilmente, infatti, negli anni a venire gli americani guarderanno più al Pacifico che all’Atlantico, più all’Asia che all’Europa. Dopo settanta anni di diplomazia americana basata sull’alleanza con gli europei, oggi l’America è concentrata sull’Asia emergente, dove ha posizioni economico-industriali da difendere e una potenza concorrente da contrastare, la Cina. Ma, nonostante tutto ciò, Barack Obama considera il Vecchio continente un partner imprescindibile. «L’Europa è una sfida importante – ha dichiarato, poche settimane fa, di fronte ad una platea di investitori – non penso che gli europei vogliano davvero la fine dell’Euro. Ma è urgente che facciano i passi decisivi per il suo salvataggio». Non usa mezzi termini nemmeno Politico.com – Bibbia della politica interna americana – quando scrive: «Obama parla di Europa. Molto. Interroga regolarmente il Segretario del Tesoro Timothy Geithner sull’andamento della crisi e telefona spesso ai leader europei». Ma forti, anzi, fortissime, restano le divergenze di impostazione e proprio sull’economia esistono le divisioni più profonde. Se sviluppo e lavoro restano le priorità comuni, come hanno ricordato oggi Barroso e Van Rompuy, l’Ue rimprovera ad Obama di non aver fatto abbastanza per riformare una finanza fatta di speculazione, mentre dagli Usa è stata più e più volte criticata la ricetta europea, targata Gemania, del rigore. Ma non c’è solo l’economia e la finanza. Anche in politica internazionale diversi sono gli scacchieri nei quali Unione Europea e Stati Uniti possono collaborare (e hanno già iniziato a farlo). Nei mesi scorsi, ad esempio, il Dipartimento di Stato americano ha inviato a Catherine Ashton – Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza – una nota confidenziale che delinea una stretta cooperazione in Asia, con specifico riferimento ai temi dei diritti umani, della governance e degli aiuti allo sviluppo. Ma anche in Africa, dove Usa e Ue lavorano gomito a gomito alla stabilizzazione del Mali, caduto in parte sotto il controllo di una ramificazione di Al Qaeda. Se l’America e l’Europa continueranno su questa strada – dicono gli analisti – ne deriveranno vantaggi per entrambe. Di certo, l’ingresso alla Casa Bianca del repubblicano Mitt Romney sarebbe stata una pessima notizia per gli europei. Durante tutta la campagna elettorale, infatti, il candidato mormone non si è risparmiato dal bacchettare duramente l’Europa, biasimandola e stigmatizzandone natura, caratteristiche e comportamenti. E questo non solo in merito alla fallimentare gestione della crisi dell’Euro – cosa, in fondo, comprensibile – ma anche e soprattutto con riferimento al ruolo dello Stato. Perché proprio lo Stato “interventista” ha sempre rappresentato lo spauracchio numero uno dei conservatori a stelle e strisce e, con esso, la sanità pubblica e il welfare che, in tutte le sue varianti, protegge (quale misfatto!) le fasce più deboli della popolazione. Per questo e altro ancora, (ri)avere un democratico alla Casa Bianca è una buona notizia. L’America di Barack Obama ha sempre sostenuto gli sforzi europei per uscire dalla crisi puntando sulla crescita. Già, la crescita, ad oggi affossata dai diktat imposti dal rigore teutonico. Ecco perché, molti – a partire dal Presidente francese François Hollande – sperano che la rielezione di Obama incoraggi ad un cambiamento di rotta anche l’Europa. Allora non rimane che ripetere il mantra di questa campagna obamiana, con la speranza che valga anche per questa parte dell’oceano: forward!
Questo mio contributo è stato originariamente pubblicato
sul portale di Libertà e Giustizia , associazione nazionale di cultura politica
martedì 6 novembre 2012
Hello! My name is Walter
Si chiama grassoroots
movement o grassoroots
democracy e sta a
significare quel modo –un po’ speciale e molto anglosassone – di partecipazione
alla politica. Come? La base, in tutte le sue espressioni, si mobilita,
producendo una felice parentesi dell’altrimenti marcato individualismo
americano. Un movimento dal basso, un esercizio di quella democrazia, tutta
americana, basata sul door to door e che lavora sul concetto di vicinato, tra
un barbecue, una serata musicale e una lotteria.
Ecco allora che Walter, 91 anni, veterano della seconda guerra
mondiale, si mette in gioco e telefona agli elettori per sostenere la
rielezione di Barack Obama.
È con
persone come lui che, quattro anni fa, una campagna che sembrava improbabile,
divenne probabilissima e, soprattutto, vittoriosa, regalandoci il primo
Presidente afroamericano della storia degli States.
Oggi
ci risiamo, e si tratta della conquista di un prezioso ‘secondo tempo’.
lunedì 5 novembre 2012
Scene di ordinario razzismo in ospedale
Sabato
mattina, l'ospedale è, al solito, affollato. I corridoi pullulano di varia
umanità. Aspetto l'ascensore che, anche esso al solito, non arriva mai.
Accanto
a me una coppia. Sorrisi di circostanza in nome della comune attesa. Lei è
incinta, come è chiaro dal grande ventre arrotondato e dalla tipica
espressione, con quel misto di orgoglio e apprensione.
L’inconfondibile suono annuncia l'arrivo dell’ascensore.
Dentro ci sono tre ragazzi di colore. Della coppia, l’uomo, passo deciso, fa
per entrare. Lei no. Dice no. Determinata e a voce alta. Quasi stizzita, nell’esprimere
il suo rifiuto sprezzante per coloro che considera altro da sé. Sceglie di aspettare un altro ascensore, forse per
lei più rassicurante.
È spaventosamente impressionante vedere come oggi – nel mondo ultraglobalizzato
del 2012 – ci sia ancora qualcuno preda di un istinto tanto basso quanto
probabilmente inconscio. È tremendamente inquietante vedere una giovane donna
spaventarsi per qualcosa di così naturale come il colore della pelle.
Perché
nessuno, ma proprio nessuno, dovrebbe temere quelle differenze che ci rendono così uguali.
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