giovedì 31 gennaio 2013
Un Senato di emozioni
Forti emozioni, ieri, al Senato Usa. Gabrielle Giffords, ex-deputata ferita alla testa durante la sparatoria di Tucson nel 2011, ha fatto il suo personalissimo e intenso appello per la regolamentazione delle armi. John Kerry, fresco di nomina a Segretario di Stato, saluta il Senato e si commuove ricordando i Kennedy.
martedì 29 gennaio 2013
Lincoln
C’è tutto nel Lincoln di Steven Spielberg. C’è la figura istituzionale
che si intreccia – più di quanto si possa credere – con l’uomo privato, con le
sue difficoltà, con i suoi affetti e con le sue relazioni familiari. C’è
l’annosissima questione se la bontà del fine debba necessariamente comportare
la liceità dei mezzi per raggiungerlo. C’è la politica, tanta politica. Che si
fa verbo, parola, per persuadere, convincere, coagulare il consenso. C’è
quell’arte oratoria, ridondante e retorica, spesso affilata, tipica delle
assemblee ottocentesche. Ma soprattutto c’è la libertà. L’America di quegli
anni era completamente lacerata attorno al significato da dare a questa
sterminata parola: da una parte, i sudisti confederati che rivendicavano la
“libertà di rendere schiavi gli altri”, dall’altra il Nord, che smaniava di
presentarsi al mondo come patria del progresso e delle opportunità, dove anche
i neri dovevano essere liberi. Due mondi – il nord e il sud – diversi, tanto diversi da farsi la
guerra. Fatto di centri manifatturieri, commerciali e finanziari il primo,
incentrato sull’agricoltura il secondo: cotone, tabacco, riso. E soprattutto
schiavi, la cui manodopera non pagata era indispensabile per le colture.
L’elezione dell’abolizionista Lincoln alla Casa Bianca nel 1860 fu la goccia
che fece traboccare il vaso. La parola passò alle armi per cinque lunghi,
lunghissimi anni. Ma non è di questo che sceglie di parlare Spielberg. La
guerra c’è, si percepisce (molto) e si vede (poco), ma siamo quasi alla fine.
Lincoln è appena stato rieletto al suo secondo mandato ed è più intenzionato
che mai a fare approvare dal Congresso il tredicesimo Emendamento, contenente
l’abolizione della schiavitù: nel 1862 il Presidente aveva già proclamato, con
una legge di guerra, l’emancipazione dei neri, che andavano così ad ingrossare
le fila dell’esercito nordista, ma – senza trasposizione in Costituzione – il
provvedimento non avrebbe superato la fine delle ostilità. Non è affatto
semplice, per Lincoln, ottenere i voti necessari. Occorre un lavorio politico
di cesello, al limite (e spesso oltre) della legittimità. Costantemente stretto
tra pragmatismo e tensione ideale. È così che si scambiano voti con incarichi
governativi, più o meno di prestigio ma, si sa, bisogna accontentarsi. E
spesso, in questi casi, occorre scendere a compromessi. Anche con se stessi.
Come nel caso di Thaddeus Stevens, capo della minoranza radicale dei
repubblicani. Fervente sostenitore dell’eguaglianza naturale degli uomini,
Stevens è costretto a mentire di fronte ai deputati, sostenendo di credere alla
sola eguaglianza “di fronte alla legge”. Solo così riesce ad ottenere
l’appoggio della maggioranza del partito. Alla fine, la sospirata vittoria dei
numeri arriva. E con essa un passaggio storico: la schiavitù è finita. Certo,
di acqua sotto i ponti ne dovrà ancora passare molta prima del completo
riconoscimento dei diritti civili e politici per gli afro-americani (lo stesso
Lincoln si era opposto a che venisse loro concesso il suffragio e ci vorrà
ancora un secolo, un movimento, un reverendo ed un sogno, per l’approvazione
del Civil Rights Act e del Voting
Rights Act).
È profondamente americano,
questo film, e ci racconta di un paese dalle mille contraddizioni, che – a me
che scrivevo una tesi sulle origini della democrazia statunitense e sulle
differenze con quella europea e che leggevo, avida, “La Democrazia in America”
di Alexis de Tocqueville – ha sempre affascinato. In “Storia della libertà
americana”, Eric Foner si esprime così: «Lincoln batteva sul concetto che la
schiavitù fosse incompatibile con gli ideali dei fondatori e con la missione
storica della nazione nei confronti del mondo». In altri termini, «la schiavitù
violava le premesse essenziali della libertà americana: libertà personale,
democrazia politica, e opportunità di migliorare le proprie condizioni di
vita».
È proprio per questo che, in quel preciso momento, non
c’era cosa migliore che il Governo “of the people, by the people, for the
people” potesse fare: riaffermare, a tutti i costi, la dignità umana.
venerdì 25 gennaio 2013
Due anni fa
Due anni fa, il 25 gennaio 2011, in Egitto iniziava la rivoluzione che avrebbe condotto alla fine del regime di Mubarak. Una rivoluzione carica di speranze, ma ancora oggi incompiuta. Qui nei racconti (e negli acquerelli) di Julia Morgan-Leamon, artista americana che - proprio in quei giorni - si trovava al Cairo.
mercoledì 23 gennaio 2013
In or Out
Prima David Cameron inizia con i complimenti. Sì, vero, l'Europa ha contribuito alla costruzione della pace dopo una guerra che «ha ricoperto le strade delle città Europe di macerie». Oggi - spiega - l'obiettivo centrale dell'Unione è cambiato: «non si tratta più si conquistare la pace, ma di assicurare la prosperità». Si giustifica («non sono un isolazionista») e giustifica i suoi connazionali («sono consapevole che - nella famiglia delle nazioni europee - il Regno Unito è percepito come il membro più polemico. La nostra geografia ha plasmato la nostra personalità: siamo un'isola, indipendente, esplicita e appassionata nella difesa della propria sovranità. Possiamo cambiare la sensibilità britannica quanto prosciugare il canale della Manica»). E, a chi descrive il regno Unito come un attore più proteso verso l'Atlantico che verso il Continente e impegnato soprattutto nello scacchiere del Commonwealth, risponde che «no, non siamo anti-europei». Dalle «legioni di Cesare alle guerre napoleoniche; dalla Riforma, all'Illuminismo, passando per la rivoluzione industriale, fino ad arrivare alla sconfitta del nazismo, abbiamo aiutato l'Europa a scrivere la sua storia e lei a scrivere la nostra». «Per noi l'Europa è uno strumento, per raggiungere stabilità, prosperità, è ancora di libertà e democrazia. Non è essa stessa un fine»
E passa in rassegna i vizi di questa europa, dell'Unione come attualmente congegnata. Anzitutto, l'eccessiva complessità delle regole e l'altrettanto eccessiva regolamentazione.
«Le persone vivono con crescente frustrazione il fatto che decisioni prese sempre più lontano da loro implichino che il loro tenore di vita venga impoverito dall'austerity o che le loro tasse siano usate per salvare governi dall'altra parte del continente».
E spiega l'Europa dei suoi sogni: competitiva («il mercato unico è ancora incompleto»), flessibile («l'Ue dovrebbe agire come una rete, non con l'ingombro di un monolite»), democratica («c'è bisogno di un ruolo più significativo per i parlamenti nazionali»).
«Insomma, a quelli che dicono che non abbiamo una visione dell'Europa io rispondo che invece ce l'abbiamo».
Ma l'attacco arriva alla fine: «ci sarà un referendum in-out. E' arrivato il momento per il popolo britannico di dire la sua». Ma invita alla prudenza, Cameron: «se lasceremo l'Unione, sarà un biglietto di sola andata, senza possibilità di ritorno. Abbiamo tempo per un dibattito ragionato, alla fine del quale saranno gli inglesi a decidere». Ma, nonostante tutto, lascia uno spiraglio aperto: «credo profondamente che l'interesse nazionale britannico sia meglio tutelato in un'Europa flessibile, adattabile e aperta. E che questa Europa sia migliore con la Gran Bretagna».
LEGGI IL TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO
sabato 19 gennaio 2013
America. In Action.
Prima era OFA, organizing for America. Adesso è OFA, organizing for action. Una sola parola, lo stesso acronimo, per segnare il passaggio alla fase due della macchina organizzativa e di mobilitazione a supporto della presidenza Obama.
"Il nostro impegno non si è esaurito nell'Election Day - si legge nella piattaforma dedicata - dobbiamo supportare l'agenda legislativa che abbiamo votato, formare la prossima generazione di grassroots people, volontari e leader, e organizzare le nostre comunità".
Già, grassroots. Una delle parole che più mi affascinano della variante democratica d'oltreoceano. Che parla di movimenti dal basso, che racconta di quella democrazia, tutta americana, basata sul door to door, che lavora sul concetto di vicinato, tra un barbecue e una serata musicale.
Ed è una splendente Michelle, con tanto di nuovo look, a dare il via alla nuova era della macchina obamiana.
Mi sono iscritta subito (esattamente come nel 2008) e questa è la risposta:
Hi --
Thanks for saying you’re in for the next phase of our grassroots movement.
I’m Jon Carson, and I'll be the executive director of Organizing for Action. I’m excited to get the chance to work with you as we set out to finish what we started.
Over the next four years, we’ve got an incredible opportunity to keep moving this country forward. This grassroots movement has shown time and again that ordinary people have the power to change our country if we work together to do it.
So locally and nationally, OFA will fight for our shared values on issues like immigration reform, climate change, gun violence, balanced deficit reduction, and more.
We’ll be working with you and other supporters to write a plan for 2013. This organization will be volunteer-led, always guided by the core principles of "respect, empower, include."
That starts now. Make sure your friends and family know about Organizing for Action, and ask them to add their names now to get involved:
http://OFA.BO/aftLVr
Thanks so much for being a part of this. See you in the field.
Mi sono iscritta subito (esattamente come nel 2008) e questa è la risposta:
Hi --
Thanks for saying you’re in for the next phase of our grassroots movement.
I’m Jon Carson, and I'll be the executive director of Organizing for Action. I’m excited to get the chance to work with you as we set out to finish what we started.
Over the next four years, we’ve got an incredible opportunity to keep moving this country forward. This grassroots movement has shown time and again that ordinary people have the power to change our country if we work together to do it.
So locally and nationally, OFA will fight for our shared values on issues like immigration reform, climate change, gun violence, balanced deficit reduction, and more.
We’ll be working with you and other supporters to write a plan for 2013. This organization will be volunteer-led, always guided by the core principles of "respect, empower, include."
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http://OFA.BO/aftLVr
Thanks so much for being a part of this. See you in the field.
giovedì 17 gennaio 2013
Well done
Obama spiega il piano per ridurre la terribile scia di violenza prodotta dalla circolazione delle armi negli Stati Uniti. Ed è così che il Presidente - dopo aver sfidato i potenti interessi delle assicurazioni nella sanità - prova ad erodere il granitico consenso di cui godono - soprattutto al Congresso - le lobby delle armi. NRA in testa, che ha già risposto con un comunicato (leggi) e con un video (sotto).
I terribili fatti di Sandy Hook ci avevano tanto colpito (Leggi: Smokin' Guns). Ci auguravamo qualcosa cambiasse. E, forse, qualcosa sta cambiando. Nella speranza che Obama riesca ad avere successo rispetto a questo grande e antico tabù della politica americana.
mercoledì 16 gennaio 2013
martedì 15 gennaio 2013
Allargare il dibattito per aumentare la democrazia
Il
titolo – “Una campagna elettorale europea” – è particolarmente invitante. Così
comincio a leggere quello che ha tutta l’aria di essere un articolo
promettente, scritto da André Wilkens (tra i fondatori dell’European Council on
Foreign Relations e direttore del Mercator Centre di Berlino), pubblicato su
Project Syndicate e ripreso da Presseurop, l’utilissimo portale che raggruppa
il meglio della stampa europea.
Il
discorso è più o meno questo: l’Europa unita, per decenni fautrice di
benessere, pace e successo, è oggi bersaglio del fuoco incrociato di più o meno
giustificato biasimo. Colpevole di alcune incertezze e di qualche (grave)
ritardo nella gestione della crisi dell’Euro, oggi l’Ue ha conquistato i titoli
dei giornali, ma i termini non sono così lusinghieri. «Dopo tutto – scrive
Wilkens – i dissidi fanno notizia. Ma il dibattito pubblico innescato da tali
dissidi non è stato del tutto costruttivo». Perché? «I dibattiti che si
svolgono in tutta l’Unione – spiega – continuano a essere in buona parte
condotti da attori nazionali in forum nazionali e con lo sguardo rivolto ai
soli interessi nazionali». «Per compiere un autentico passo avanti e decidere
lo sviluppo dell’Ue – continua – occorre definire chiaramente gli interessi
europei».
Ma
individuare obiettivi e programmi che siano veramente condivisi – che
forniscano, cioè, quel comune denominatore che spesso sembra sfuggire –
significa attivare meccanismi di dibattito declinati in chiave europea. Wilkens
non usa mezzi termini: «si renderà necessario un dibattito paneuropeo serio e
schietto, superiore alla somma dei singoli dibattiti nazionali. La discussione
dovrà essere pubblica e coinvolgere l’intera cittadinanza europea». E le
elezioni del Parlamento europeo nel 2014 sono un’ottima occasione per mettersi
in cammino lungo questa strada.
In
altre parole, il dibattito prodotto dal Financial Times e dall’Economist, dalle
conferenze paneuropee, dai network e dalle Ong, è condizione probabilmente
necessaria, ma certamente non sufficiente, dal momento che è in grado di
coinvolgere le sole élite intellettuali, che già possiedono un elevato livello
di informazione ed alfabetizzazione circa gli affari europei. Occorrono,
piuttosto, cambiamenti istituzionali in grado di propiziare la nascita di una
sfera pubblica comune. In molti, da tempo, suggeriscono nuovi meccanismi, quali
la creazione di collegi elettorali transnazionali per una competizione su scala
europea o l’elezione diretta del Presidente della Commissione.
Perché,
oggi, è proprio questo il punto: costruire una vera opinione pubblica europea.
Luogo per eccellenza della rappresentanza e della partecipazione, ambito (a
volte) della decisione, più spesso della discussione e del confronto, l’opinione
pubblica – insieme allo spazio operativo immateriale entro cui opera, la sfera
pubblica – costituisce linfa vitale della democrazia. Anche per l’Unione
europea, organismo spurio, né Stato (tanto meno super-Stato), né semplice
organizzazione internazionale, ma che, quotidianamente, decide di numerosi
aspetti della nostra vita.
«La crisi
dell’euro – conclude Wilkens – mette a repentaglio l’esistenza stessa dell’Ue,
ma costituisce al contempo un’occasione per allargare l’importante dibattito sul
futuro dell’Europa, un dibattito che funzionerà soltanto nell’ambito di una
democrazia parlamentare genuinamente europea».
Questo mio contributo è stato originariamente pubblicato
sul portale di Libertà e Giustizia, associazione nazionale di cultura politica.
venerdì 11 gennaio 2013
Al lavoro. Per il lavoro.
Mentre in Italia ci si
scalda, tra gli altri, sul tema del lavoro, anche in Francia le polemiche in
merito non si risparmiano. Il dibattito è più che mai acceso e la sfida non
poco impegnativa. Semplificando, la posta in gioco è questa. Da una parte, c’è l’impresa
che chiede maggiore flessibilità e, dall’altra, il lavoro dipendente, che
chiede stabilità e certezze. In mezzo, un meccanismo ancora tutto da definire
allo studio dal governo di Françoise Hollande (questa sembra essere la
settimana cruciale per le trattative).
L’impresa
vorrebbe anzitutto poter avere, quando necessario, la libertà di spostare un dipendente in termini di
mansione e/o di sede, salvaguardando – come è ovvio – qualifica e livello
retributivo. Se il lavoratore rifiuta, scatta il licenziamento per “motivi
personali”, procedura più snella rispetto al licenziamento economico. Altro
scenario: il datore di lavoro procede a riduzioni salariali temporanee, in
grado di salvaguardare però le assunzioni (l’operazione, nel suo complesso,
deve però essere approvata da almeno il 50% dei dipendenti). Anche qui, il
lavoratore che si oppone può essere licenziato. Infine, le imprese vorrebbero
un ridotto potere di giudizio della magistratura sui temi più delicati (piani
di ristrutturazione, ricorsi ...).
I
sindacati – dal canto loro – chiedono un aumento dei contributi sui contratti
brevi o brevissimi. Il fine? Disincentivare l’utilizzo di forme contrattuali
responsabili della crescente precarizzazione degli ultimi anni (i contratti
inferiori al mese e, a volte, addirittura sotto la settimana sono aumentati
negli ultimi dieci anni dell’88%). Il sindacato, inoltre, chiede che le imprese
finanzino l’assistenza sanitaria complementare per tutti i lavoratori.
Voi
che ne pensate?
(Questo post trae ispirazione dall'ottimo articolo di Marco Moussanet
"Parigi cambia le regole sul lavoro", Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2013)
"Parigi cambia le regole sul lavoro", Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2013)
giovedì 10 gennaio 2013
mercoledì 9 gennaio 2013
In frantumi
La crisi travolge un altro pezzo di made in Italy. Un altro pezzo di quella sapiente esperienza, di quell'attenzione alla qualità e di quella propensione all'eccellenza che ci hanno reso famosi nel mondo.
Richard Ginori, storico marchio di porcellane artistiche, ha dichiarato fallimento. Entro breve sarà indetta la nuova gara per l'acquisizione dell'azienda.
Richard Ginori, storico marchio di porcellane artistiche, ha dichiarato fallimento. Entro breve sarà indetta la nuova gara per l'acquisizione dell'azienda.
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Richard Ginori
sabato 5 gennaio 2013
Trova le differenze
Twitter e la politica, la strana coppia. Per molti inutile (in 140 battute non si spiegano programmi), per altri utile (si entra comunque in contatto con i cittadini). Come la pensiate, oggi - per la prima volta nella politica italiana - un esponente delle istituzioni, Mario Monti, ha risposto ai cittadini attraverso il notissimo sito di microblogging. Seguendo illustri precedenti (Obama on Twitter: GUARDA il VIDEO).
Con qualche lentezza e qualche invio errato, ma con tanto di smiles.
Benvenuti nella politica italiana 2.0.
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