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Il Presidente francese François Hollande |
Europa a
due velocità, nocciolo duro, avanguardia: tanti nomi per un solo scenario, che vedrebbe alcuni
paesi europei procedere verso percorsi più approfonditi di integrazione,
avanzando autonomamente rispetto agli altri, o semplicemente precedendoli. A
risollevare il dibattito sul tema – ampiamente discusso anche in passato – è il
presidente francese François Hollande, in una recentissima intervista dalla grande eco
mediatica. «La mia proposta è un’Europa che avanza a più velocità, per cerchi
differenti». E, a suo parere, l’Europa più spedita dovrebbe coincidere con l’attuale
Eurogruppo: «Abbiamo una zona Euro che ha un patrimonio, la moneta unica, e
richiede un nuovo governo», prosegue Hollande. «Questa zona deve prendere una
dimensione politica». Secondo l’inquilino dell’Eliseo, dunque, i 17 paesi che
attualmente condividono la moneta, dovrebbero istituire riunioni mensili dei
rispettivi Capi di Stato e di Governo. Inoltre, il consesso dei Ministri delle
finanze dovrebbe essere irrobustito e il suo presidente dovrebbe ricevere un
mandato chiaro e sufficientemente lungo.
È con questa ricetta che Hollande rilancia un tema antico
(perfettamente riassunto da Dastoli, Majocchi e Santaniello in “Prospettiva
Europa”, 1996), già circolato tra gli intellettuali europei – europeisti o
antieuropeisti, a seconda delle vocazioni e delle nazionalità – e sul quale ora
sarebbe auspicabile un dibattito esteso. In principio fu Luis Armand a parlare
di un’Europe a la carte, dove ognuno poteva scegliere quello che preferiva: lo sviluppo
di ulteriori iniziative, in altre parole, era lasciato alla libera adesione dei
singoli paesi. A metà degli anni ’70, ai tempi del Serpente monetario europeo
(progenitore dell’attuale moneta unica) Willy Brandt e Leo Tindemans parlavano
di Europa a due velocità: «È impossibile presentare oggi un programma d’azione
credibile, se si considera assolutamente necessario che in tutti i casi tutte
le tappe siano raggiunte da tutti gli stati nello stesso momento». E ancora: «la
divergenza obiettiva delle situazioni economiche e finanziarie è tale che, se
questa esigenza è posta, il progresso diventa impossibile».
Jacques Delors preferiva invece un’Europa “a geometrie variabili”, per permettere alla recalcitrante
Gran Bretagna (e non solo a lei) di svincolarsi – attraverso specifiche deroghe
– da alcuni aspetti del contesto comunitario, senza però staccarsene del tutto.
Altiero Spinelli invocava, invece, un “nucleo federale” di paesi decisi a
procedere lungo la strada dell’integrazione politica. Alla fine degli anni ’80,
i cambiamenti economici (l’avvio dei negoziati sull’Unione economico monetaria)
e geopolitici (l’imminente crollo dell’Urss) imponevano di ripensare l’architettura
europea. Sempre Delors immaginava allora un’Europa “a cerchi concentrici”: il
primo cerchio federale, il secondo a natura economica, il terzo per la
cooperazione con l’Europa orientale e il quarto – il più largo – per inglobare
altri consessi internazionali.
Diverse (anche molto) le soluzioni, ma un medesimo fine: differenziare i livelli di
integrazione, per consentire all’Europa di evolvere anche di fronte a
divergenze di interessi, differenti volontà politiche o livelli di sviluppo
economico diseguali. Oggi è la crisi a riproporre il tema dell’Europa a due
velocità. Per alcuni soluzione, per altri tomba del processo di integrazione. Già perché è il concetto stesso di
Europa a due velocità ad essere un’arma a doppio taglio. Occorre chiarirsi
sulla portata e soprattutto sulla natura della differenziazione. Se il
discrimine venisse individuato nella maggiore o minore ricchezza, il progetto
sarebbe fortemente discriminatorio e, come tale, negativo per il futuro stesso
dell’Unione. Se invece la differenza di velocità risiedesse nella volontà
politica, più o meno forte, di compiere scelte per mettere in comune politica e
governance economica, be’, allora il progetto sarebbe tutta altra cosa. E,
probabilmente potrebbe avere una ricaduta positiva per l’Ue. Il nocciolo duro
degli avanguardisti, infatti, potrebbe fungere da traino, aprendo la strada a
innovazioni politico-istituzionali non di poco conto. Attualmente i trattati
europei già permettono meccanismi a velocità variabile. Si pensi alla
cosiddetta cooperazione rafforzata che consente ad un numero limitato di Stati
membri di progredire sulla via dell’approfondimento della costruzione europea,
nel rispetto del contesto istituzionale. Questo l’escamotage che ha permesso –
per fare un esempio recente e significativo – il varo della Tobin Tax. L’accordo
di Schengen, ancora, riunisce solo i paesi che hanno optato per la libera
circolazione delle persone. Ma se la differenziazione dovesse significare
lasciare in dietro la cosiddetta Europa di serie B, abbandonando senza cure i
morti sul campo di battaglia della crisi, questo sarebbe il più grande
fallimento di tutto il disegno europeo. E l’articolo 3 del Trattato sull’Unione
Europea, per cui “essa promuove la coesione economica, sociale e
territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri” rimarrebbe, ahinoi, vuota retorica.
Questo mio contributo è stato originariamente pubblicato