lunedì 27 maggio 2013

La Grande Bellezza


Toni Servillo è Jep Gambardella nel film di Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza

La Grande Bellezza, un film di Paolo Sorrentino.

Anzitutto la musica. È la musica, e più precisamente la contrapposizione tra la chiassosa dance e la limpida vocalità liturgica, a farti capire che in questo film c’è il sacro e il profano. C’e Roma – silente, maestosa e placida, forte della sua storia, quasi tronfia. E ci sono gli uomini, certi uomini e certe donne che di quella bellezza e di quella maestosità ne fanno solo lo sfondo per le loro squallide imprese. Imprese mondane, vacue, trasparenti come un drink, sfavillanti come le luci stroboscopiche dei locali vip che frequentano per tentare – non riuscendoci – di dare sostanza alle loro vite.
La scena iniziale è da girone dantesco. Corpi pacchianamente agghindati si agitano al ritmo della musica da discoteca, si strusciano, si sovrappongono, si mescolano. Braccia, gambe, orecchini che sembrano lampadari, labbra rifatte, capelli cotonati. La telecamera mano a mano individua un uomo. Lo segue, gli si avvicina e, mentre la musica rallenta deformandosi nel ritmo, ecco che ci viene presentato il protagonista, Jep.
Jep Gambardella, scrittore (forse) di talento poi divenuto giornalista, ma che – una volta arrivato a Roma – viene fagocitato dalla mondanità capitolina. Fagocitato, sì, ma consapevolmente: «Non volevo essere semplicemente un mondano – spiega la sua voce fuori campo, in una delle sue passeggiate lungo il Tevere – volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste, io volevo avere il potere di farle fallire». Ed è così che decide di sprecare il tempo, di buttare via giornate che iniziano di pomeriggio, in un costante, monotono e ripetitivo jet lag. Tempo fatto di notti, di ricevimenti e inviti a casa, la casa che guarda al Colosseo (no, non è quella di Scajola). Di gente improbabile, tutta preoccupata a sembrare quello che non è.
Ma sa osservare, Jep. La sua capacità critica non è stata del tutto affossata da questa vita, Sa scorgere angoli e colori di Roma, la corsa di un bambino e il suono delle campane. Ed è ancora la musica sacra a fare da contrappunto ai momenti in cui il bello ed il vero emergono, riuscendo a squarciare il velo di una non-vita. E sa essere critico, Jep, più conscio dei suoi stessi simili, bacchettandoli quando si prendono troppo sul serio: «Sull’orlo della disperazione, non ci resta che farci compagnia, prenderci un po’ in giro».
Numerosi personaggi ruotano attorno al protagonista, senza però acquisire mai una fisionomia ben precisa. C’è Ramona, l’amica genuina, più vera di quelli solitamente frequentati da Jep. Ma è solo una meteora. C’è l’amico poeta che non sfonda e, sconfitto nella sua “lotta” con la Capitale, se ne torna in provincia.
E poi c’è il ricordo dell’amore di un tempo a rappresentare le opportunità perse, il momento in cui tutto si poteva ancora fare. Una vita in potenza che oramai vive solo nella memoria.
Sì, è tutto esagerato nel film senza trama di Paolo Sorrentino, tutto esasperato fino al ridicolo. È un ritratto impietoso di certa umanità, varia. Addirittura troppo caricaturale per essere sufficientemente intensa. Le rifatte (e i rifatti) seriali, in fila dal santone del moderno culto del fisico, fisico che deve rimanere sempre uguale a se stesso e finisce con l’essere deformato in maschere orribili e uniformate. Non manca – siamo a Roma! – il clero, gli alti prelati dediti più alla bella vita che alla spiritualità, più avvezzi a disquisire di pietanze gourmet che ad affrontare i temi della fede.
Inquietante l’umanità tratteggiata ne La Grande Bellezza. Roma, per forza indifferente, fa da sfondo ad una messinscena grottesca. Il film è spesso surreale e visionario, spiazzante.
Ma non del tutto privo di speranza. Qualcuno, come sembra succedere allo stesso Gambardella, può forse anche salvarsi. Ed è proprio grazie alla Grande Bellezza che gli appare fugace, che Jep recupera la consapevolezza. E decide di riprendere a scrivere, ricucendo – anche se in ritardo – con l’io di decenni prima. Perché, in fondo, per usare le sue parole, «è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile».




2 commenti:

  1. Bella recensione.
    Mi fa piacere che tu veda una speranza. Io non ne vedo. O meglio: non ne vedo in relazione a possibili cambiamenti.
    Jep è in fondo felice della vita che conduce, perché parte dal presupposto che nulla può essere cambiato e tutto e disperazione. E dunque è meglio godersela con vista sul Colosseo!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie!

      Sai, io una forma di redenzione l'ho vista nella sua progressiva acquisizione di consapevolezza, fino al ritorno alle radici (tramite i ricordi) e al desiderio di scrivere. Come se - dopo una lunga parentesi - riuscisse a tornare veramente se stesso.

      Elimina