giovedì 28 giugno 2012

Germania vs Italia



Tra stereotipi, luoghi comuni e qualche verità. Per aspettare - sorridendo - la semifinale.


mercoledì 27 giugno 2012

Poche e sentite parole



"Mettono tenerezza i cittadini che chiedono la rottamazione dell’euro e il ritorno alla vecchia moneta. Non rimpiangono la lira, ma il tempo della lira. Quando le famiglie risparmiavano ancora, l’economia cresceva poco ma cresceva, e la svalutazione gonfiava gli affari. Fare un mutuo costava il doppio di adesso e l’inflazione viaggiava a due cifre, però i cinesi stavano dietro la Muraglia, gli slavi ansimavano dietro il Muro e i brasiliani e gli indiani esportavano solo miseria. Il mondo era un posto relativamente piccolo e ordinato che coincideva con l’Occidente. Ma se oggi tornasse la lira, di quel tempo tornerebbe soltanto lei. Insieme con l’inflazione a due cifre. I cinesi non andrebbero certo indietro, e nemmeno i brasiliani. In compenso noi andremmo al supermercato con la carriola: non per infilarci la spesa ma i soldi necessari a comprarla. Una pila di cartaccia che della vecchia lira conserverebbe soltanto il nome. Secondo i calcoli più ottimistici perderemmo in un giorno il 30 per cento del valore di tutto ciò che ci resta, diventando la replica della Germania di Weimar che fece da culla al nazismo.

Mettono tenerezza i cittadini spaventati dal futuro, quando si aggrappano a un passato che non può tornare. Mentre provocano soltanto rabbia quei politici che queste cose le sanno benissimo, ma preferiscono lisciare il pelo del popolo impaurito invece di guardarlo negli occhi e dirgli parole adulte: che chi perde la strada deve resistere alla tentazione di tornare indietro, perché solo andando avanti troverà il sentiero che lo riporterà sulla strada perduta".

Massimo Gramellini
La Stampa  27 giugno 2012

martedì 26 giugno 2012

Quando anche la tassa piace


Che sia la volta buona? Per mesi, lo scorso inverno, ha campeggiato nei titoli dei quotidiani e rimbalzato sulle pagine dei social network, diventando inevitabile e ripetitivo leitmotiv di ogni Tg. Stiamo parlando della Tobin Tax, l'arcinota tassa sulle transazioni finanziarie (in inglese FFT, financial transaction act). Alcuni paesi europei, infatti, hanno deciso di avviare la cosiddetta procedura di cooperazione rafforzata, quella che permette - nei casi in cui manca l'unanimità - di procedere comunque, cominciando a buttare giù un progetto per l'introduzione dell'imposta. Ma che cosa è esattamente la Tobin Tax? Andiamo a spulciare nei libri di economia per cercare di saperne di più.
Il Prof. James Tobin
Innanzitutto partiamo dal nome. Tobin, come James Tobin, ossia l’economista e premio Nobel (professore anche di Mario Monti, eh sì, come è piccolo il mondo) che l’ha inventata. Niente meno che 40 anni fa (il primo studio fu elaborato nel 1972). Già perché la “tassa Tobin” è, oramai, un vecchio progetto, mai realizzato. Ma sempre valido, anzi validissimo.
Trattasi, in sostanza, di una tassa da applicare alle transazioni finanziarie internazionalicon l’obiettivo di frenare la speculazione e stabilizzare i mercati, raccogliendo al contempo nuove risorse utili – secondo la versione originaria – ad obiettivi globali (riduzione del divario tra i paesi ricchi e quelli poveri), oggi preziose soprattutto per ridare ossigeno ai debiti sovrani dei paesi in affanno.
La tassa – la cui aliquota di riferimento è compresa tra lo 0,1 e l’1 % – andrebbe a colpire soprattutto la speculazione: scattando implacabile ad ogni transazione, renderebbe poco convenienti, in particolar modo, le compravendite di breve periodo (comprare e vendere a piccoli intervalli di tempo per approfittare degli spostamenti del mercato, significherebbe vedersi applicare l’aliquota ad ogni passaggio). Valido deterrente, dunque, la Tobin Tax annullerebbe l’appetibilità di simili operazioni per i falchi della finanza. 
E se pensiamo che è stata proprio la finanza globale più spregiudicata ad innescare la crisi di cui ancora oggi stiamo pagando le (amare) conseguenze, be’, allora la Tobin tax diviene subito, agli occhi dei più, la “tassa buona” per eccellenza. Capace di rivalersi – una volta per tutte – sui veri responsabili del virus che ha drammaticamente contagiato l’economia reale.
L'adesivo della campagna
promossa dall'associazione ATTAC
Cavallo di battaglia del movimento No Global, la tassa di Tobin era temporaneamente tornata in auge dieci anni fa (ricordate gli adesivi della campagna promossa dall’associazione francese Attac, con lo squalo – munito di ventiquattro ore – il cui feroce morso veniva fermato da una semplice matita, quella per la raccolta firme pro aliquota?), senza essere di fatto mai attuata. Le pressioni esercitate del mondo finanziario, riverito (anche dalla politica) e lasciato a mani libere, hanno sempre avuto la meglio.
E oggi a rispolverarla e rilanciarla ci pensano in particolare Francia e Germania (dal ministro dell'economia tedesco, Wolfgang Schauble, la svolta: durante l'ultimo Ecofin ha proposto un'alzata di mano per valutare la possibilità di avviare la cooperazione rafforzata). Mentre il Premier inglese David Cameron – alla ricerca del consenso della City – non ne vuole sentire a parlare: “gli Stati che vogliono introdurre la tassa sulle transazioni finanziarie sono liberi di farlo – dichiarò senza mezzi termini qualche mese fa – ma bloccherò l’idea di una tassa europea”. E, ad oggi, non sembra aver cambiato idea. L'Italia, dal canto suo, appoggia l’ipotesi di un prelievo sugli scambi finanziari, ma - al momento - ha preferito non prendere impegni concreti. Il nostro paese, infatti, avrebbe preferito una applicazione estesa a tutti i 27 (o 26, senza il Regno Unito) paesi dell’Unione. Già perché, con una misura del genere, il rischio è quello di provocare l’effetto “fuga dei capitali”: gli investitori andrebbero ad operare nei Paesi detassati. Rischio che anche Mario Monti – pur favorevole (“per ragioni economiche e politiche”) alla misura – ha ben presente. 

mercoledì 20 giugno 2012

Euro(pei)

"C'è stato un tempo in cui era una moneta unica!"          Patrick Chappatte - Neue Zurcher Zeitung

La Spagna ha ricevuto dall'Ue un prestito da 100 miliardi di Euro per ricapitalizzare le proprie banche                                                                                          Ruben L. Oppenheimer - Nrc Handelsblad  
Il Premier spagnolo Mariano Rajoy si è detto molto soddisfatto del prestito concesso dall'Ue      Christo Komarnitski 
Brian Adcock

lunedì 18 giugno 2012

La Grecia, tra il mito di se stessa e la crisi

Oli Scarff/Getty Images

«Non è certo una novità, è molto tempo che in Grecia viviamo nella luce di una stella morta», spiega Dimitris Dimitriadis, 68 anni, drammaturgo saggista, poeta e traduttore, intervistato da Le Monde a proposito del suo paese, mai come oggi in (profonda) difficoltà. Ma che forse, con il voto di domenica, ha deciso di voltare pagina, di andare avanti e provare a risalire la china. «Quello che caratterizza la Grecia è una sorta di stagnazione, di immobilismo mentale. Si rimane intrappolati in abitudini psicologiche e sociali, ci si adagia su una tradizione morta e non si pensa più a rinnovare – continua – si tratta di un problema gravissimo. Un paese con una storia come la Grecia è bloccato nel meccanismo stesso della storia. Per questo motivo siamo arrivati a questa situazione. Tutto quello di cui si parla, questa grande eredità greca di cui ci si vanta, è chiusa in modelli preconcetti, in stereotipi».
E, ironia della sorte, proprio lui – in Muoio come paese, opera risalente all’ormai lontano 1978 – aveva profetizzato un simile destino: «ho scritto questo testo 35 anni fa. Il paese era uscito dalla dittatura dei colonnelli, era un periodo pieno di speranze, di promesse e di ricchezza. Mi trovavo in una situazione personale di solitudine assoluta, che mi ha spinto a scrivere questo testo che ha preso la forma di una parabola: parlo di un paese che muore perché non accetta la propria fine e non accetta l'altro. Un paese che si sente assediato da mille anni, che non accetta quello che chiama il nemico, che non vede che il "nemico" è la sua stessa prospettiva di futuro».
Dimitris Dimitriadis
Nelle parole di Dimitriadis, dunque, la crisi appare, prima che economico-finanziaria, storica e culturale. «il sistema politico nel quale viviamo in Grecia, e che risale all'occupazione ottomana (quindi a diversi secoli fa), è completamente clientelare. I grandi proprietari terrieri di un tempo sono stati sostituiti dai partiti politici, ma i rapporti con la popolazione sono rimasti gli stessi. Lo stato appartiene al partito, e il partito sfrutta le risorse dello stato per mantenere il suo sistema clientelare».
E non nasconde le responsabilità dei cittadini greci, rei di aver «vissuto con facilità e superficialità». «I nostri politici sono l'immagine del nostro popolo. Questa deplorevole mentalità interessa tutta la popolazione greca. Spesso ho l'impressione che una forma di volgarità, di maleducazione, abbia conquistato il nostro paese».
Da sempre si parla della Grecia come della"culla" della nostra civiltà «In realtà dobbiamo renderci conto che questa culla è diventata la nostra tomba. Ma una tomba può a sua volta diventare una culla. Finora l'umanità ha sempre saputo rinnovare le sue forze e i suoi modelli di civiltà attraverso le sventure e le catastrofi. E non vi è alcuna ragione per pensare che non possa continuare a farlo».

giovedì 14 giugno 2012

Botta e risposta 2. La vendetta.


All’Economist non l’hanno presa bene e rispondono, piccati, al quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt, reo di aver, per così dire, “reinterpretato” – in una variante filo-tedesca – l’ultima copertina del giornale inglese, che raffigurava la riluttanza della Cancelliera Merkel ad "accendere i motori" dell’economia europea. «E’ una replica quanto mai strana» – si legge nella versione on-line del settimanale londinese – con la Germania, export dipendente, che se ne sta in disparte rispetto all’economia mondiale». Quando in realtà, «il debito pubblico dei tedeschi è più grande di quello della Spagna e l'America è cresciuta più rapidamente rispetto alla Germania nel corso del primo trimestre del 2012 (per la fortuna degli stessi tedeschi, che sono esportatori netti per l'economia americana)».
«La verità è che – conclude l’Economist – il governo della Germania, più di ogni altro, ha la capacità solcare le acque dell’economia dell’eurozona e, dunque, di quella mondiale, allontanandola dal pericolo di una catastrofe economica. Ma, come dimostra l’immagine proposta da Handelsblatt, i tedeschi ancora non se ne rendono conto».

mercoledì 13 giugno 2012

Botta e Risposta


Il primo ad iniziare è l’Economist: sulla copertina dell’ultimo numero c’è una nave che affonda – metafora dell’economia mondiale – e un fumetto che dice: “Per favore, possiamo accendere i motori adesso, signora Merkel?”.
Il quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt ha risposto con una pagina interna, che –modificando la copertina originale del noto settimanale – raffigura il ministro tedesco dell’Economia, Wolfgang Schäuble (in sedia a rotelle a causa delle ferite riportate in un attentato) che chiede alla Merkel: “Dove sono i nostri amici, Angela?”: “Troppo grossi per stare a galla”, risponde la cancelliera, con un “too big to swim” che riprende (evidentemente e ironicamente) la famosa formula “too big to fail”. La nave affonda a causa di alcune “zavorre” tra cui Italia, Spagna, Grecia, Stati Uniti, Francia... 


lunedì 11 giugno 2012

Città nella città




E dopo “l’anticittà” è la volta delle “città nella città”, cities within the city. Questo il tema di FestArch 2012, tutto volto a svelare le dinamiche più profonde delle città contemporanee. Il concetto richiama il moltiplicarsi – all’interno delle metropoli – di luoghi urbani che nascono, vivono e sopravvivono come sistemi sociali ed economici chiusi, sospesi tra le antitetiche condizioni di autosufficienza e esclusione, sociale e spaziale. Ogni anno, ogni mese, tante «micro-città» sorgono nel corpo della conurbazione consolidata: favelas, townships, insediamenti informali, per fare degli esempi. Ma anche distretti sanitari, tecnologici o culturali, interi quartieri che si depositano dopo i grandi eventi, new town, gated community. E ancora: architetture introverse e autosufficienti, infrastrutture perimetrate come stazioni, aeroporti e parcheggi, recinti commerciali e aree militari. Insomma, una serie di “microcosmi” il più delle volte quasi corpi estranei rispetto a quanto sta loro intorno. Sono molti i casi in cui l’espansione fuori controllo delle nostre città ha consentito a un tessuto informale anarchico di diramarsi senza un preciso disegno sotto la pelle della città consolidata. E, a volte (come nel caso di baraccopoli, bidonville e slum), il fenomeno spaventa, incarnazione della faccia – la più oscura – della vita urbana, spesso colpevolmente ignorata dall’urbanistica politica.
Questa tendenza, avvertono gli esperti, non deve essere trascurata, ma – al contrario –analizzata e, soprattutto, compresa. Anche perché non indifferenti sono le ricadute socio-politiche: queste città informali che nascono e proliferano in tutto il mondo, sono spesso il primo punto di accoglienza per i grandi flussi migratori e sono anche una risorsa, potenziali luoghi dinamici dove, ad esempio, può essere recuperata la produzione artigianale, spazi a volte fragili nella progettazione e nei materiali, ma molto forti nella loro identità, con forti capacità di influenzare voti politici e dinamiche sociali. Non meno evidenti, in questo senso, sono i fenomeni di dismissione o abbandono dei nostri centri storici, grandi “città nella città”, che richiedono riflessioni adeguate in grado di guardare al futuro. Ancora, nuove città prendono forma fuori dai confini di quella esistente, per assecondare una volontà di decentramento e di estensione incontrollata. Tutti temi, questi, imprescindibili per l’agenda politica di ogni paese. 

venerdì 8 giugno 2012

(Anti)città




















Ha aperto i battenti proprio ieri, a Perugia e Assisi, FestArch 2012, quarta edizione del Festival internazionale dell’Architettura organizzato dalla nota rivista di design “Abitare”. Per la seconda volta in Umbria, la kermesse vedrà sfilare numerose “archistar”, nomi celebri nel panorama internazionale in fatto di design, urbanistica e architettura, ma anche giovani talenti creativi. Per l’occasione, allora, ho rispolverato “Anticittà” (Laterza, 2011), il bel libro di Stefano Boeri, architetto e urbanista, assessore alla cultura al Comune di Milano, nonché mente del Festival.
Ma che cosa è “l’anticittà” coniata da Boeri? È un modo – profondo e provocatorio quanto basta – per descrivere la caratteristica dominante delle città odierne, dove una periferia, astratta e simbolica, lungi dall’essere mera entità fisica e spaziale, si è pericolosamente infiltrata ovunque, «svuotando di senso  la nostra vita urbana». Siamo soliti intendere la periferia come margine esterno della città? Sbagliato. La periferia – sostiene l’architetto milanese – non è più (o, forse, non è mai stata) un concetto geografico: non è un territorio riconoscibile nel suo essere distante e separata dal centro storico delle nostre città. La periferia è ovunque. O meglio, è dove c’è l’anticittà, ossia dove si afferma degrado, povertà e assenza di servizi. «Pensate a Napoli e Genova – scrive l’architetto – o, ancora, a Barcellona e a Marsiglia: la “periferia” è in pieno centro».
Le nostre (anti)città appaiono allora più che mai disgregate: non più insiemi organici e coesi, ma accozzaglia di «oggetti giustapposti». Nella dispersione del territorio, abbiamo creato un arcipelago di sistemi chiusi, forti e impenetrabili», quasi delle “monadi” («il centro commerciale, l’area terziaria, i quartieri ghetto e le enclave di lusso: le nostre aree urbane somigliano oggi ad un territorio a macchia di leopardo». Le conseguenze? «Innanzitutto una fortissima spinta alla frammentazione. E poi dentro alle città si è persa quella varietà sociale che significava convivere tra diversi nella stessa porzione di spazio». E, come se non bastasse, forme di alienazione, per cui persone, giovani, anziani vengono, di fatto, tagliati fuori dalla vita culturale, economica e istituzionale.  «Dove le relazioni di scambio non esistono». L’omologazione ha la meglio sulla differenziazione e la rassegnazione domina sulla speranza. In uno spazio così organizzato, non c’è più nemmeno mobilità (sociale): «ogni prospettiva di miglioramento della propria traiettoria di vita viene meno», spiega Boeri. E – a quel punto – il passo verso l’antagonismo ribelle, la rivolta radicale e l’insurrezione è breve. Brevissimo.
Occorre allora “fare città”. Come? Con la (buona) politica. «Politiche sono le leggi che disciplinano il welfare, gli incentivi alle famiglie, la redistribuzione dei redditi, la promozione di comunità di impresa che offrano occasioni di scambio e di mobilità sociale». L’urbanistica deve ristabilire un rapporto con la politica, le politiche pubbliche devono essere intelligenti, ascoltare istanze e bisogni, promuovere la relazione e lo scambio.
Tema affascinante e profondamente “politico”, nel senso (vale la pena specificarlo) etimologico del termine, di gestione della cosa pubblica. Architettura e politica, la strana coppia? Solo apparentemente. Già perché, in fondo, le due “arti” sono sempre state intrecciate, eccome. Soprattutto oggi, che i grandi temi della politica sono quelli della sostenibilità, dell’energia, della questione ambientale, delle rinnovabili e della riorganizzazione dello spazio sociale. Cosa c’è – in fin dei conti – di più politico che organizzare e gestire lo spazio in cui viviamo?


Stefano Boeri, “Anticittà”, Laterza, 2011, € 12

lunedì 4 giugno 2012

Vote and the City






«Caro amico,
è mio grande onore invitarti a partecipare all’evento che organizzo a casa mia con il Presidente e la First Lady il prossimo 14 giugno. Facendo oggi una donazione di qualsiasi importo, potrai automaticamente partecipare all’estrazione, vincere due biglietti per New York e unirti a noi».
A parlare, anzi, a scrivere – a milioni di persone che, come me, nel 2008 (in piena “Obamania”) si sono iscritte ad Organizing for America, ricevendo, da quel giorno, aggiornamenti via mail dallo staff del Presidente Usa – è Sarah Jessica Parker, l’arcinota Carrie di Sex and the City.
«Sono convinta, oggi come nel 2008, che con l’impegno di tutti noi – continua l’attrice –non solo faremo la storia, ma riusciremo a creare quel fondamentale cambiamento di cui gli americani hanno bisogno».
Il la lo aveva dato – il mese scorso – George Clooney, imbastendo un megaevento a Los Angeles, in occasione del quale i 150 partecipanti hanno sborsato (niente meno che) 40,000 $ pro capite.
Le “campaign dinner”, si sa, sono una vera miniera d’oro nella delicata fase del fundraising. Ancora più preziose per agguantare il secondo mandato.
Hollywood, del resto, ha sempre guardato alla politica, e non solo da sinistra: a parte l’attivismo di molti attori e registi liberal, numerose sono state – soprattutto nel passato – le star di destra ad aver influenzato la storia politica americana, da Reagan a Schwarzenegger.
E oggi anche il patinato mondo della moda – nella persona della zarina Anna Wintour, direttrice di Vogue USA – scende in campo, per promozionare la glamorousNew York Night” di metà giugno.
Alè.

venerdì 1 giugno 2012

L’Irlanda dice sì

Il Primo Ministro irlandese, Enda Kenny, festeggia la vittoria dei sì al referendum sul Fiscal Compact























60% sì, 40% no. Questo il risultato del referendum irlandese sul Fiscal compact, il nuovo trattato fiscale europeo varato in piena tempesta economico-finanziaria e destinato ad introdurre norme più severe in fatto di bilancio. Gli irlandesi, dunque, danno il nulla osta al patto, iniettando una buona dose di fiducia sull’operato dell’Unione, recentemente da più parti aspramente criticato. Con un affluenza al 50.6 per cento, il quesito referendario si è rivolto ad un elettorato di 3,144,828 persone.
Diversificate, come è ovvio, le reazioni. Entusiasta il Primo Ministro Enda Kenny (foto) che fino all’ultimo si è speso per un netto e convinto sostegno al sì: «il voto affermativo sul Trattato fiscale – spiega – lancia un forte segnale al resto del mondo: l’Irlanda è seriamente intenzionata a superare le proprie difficoltà economiche».
Gerry Adams, leader dei socialisti di Sinn Féin, contrari al Fiscal Compact così come, più in generale, alla politica di austerità targata Ue, dice di accettare l’esito delle urne. Non manca, però, di criticare gli esponenti del governo, rei – a suo parere – di aver fatto facili promesse (hanno assicurato, ad esempio, di non affibbiare ai cittadini i costi del salvataggio degli istituti bancari e di  lavorare per maggiori opportunità occupazionali). Vedremo - spiega Adams - se manterranno questi impegni.
Tirano un sospiro di sollievo le Istituzioni europee che – per voce del Presidente della Commissione José Manuel Barroso – «salutano con favore il risultato della consultazione popolare, congratulandosi con l’Irlanda per aver partecipato ad un intenso dibattito su un Trattato fondamentale in termini di risposta europea alla crisi economica».