venerdì 31 gennaio 2014

Waiting for Super Bowl - #CupTherapy

giovedì 30 gennaio 2014

Waiting for Super Bowl - Pistachios



Il Super Bowl, si sa, non è solo l'evento sportivo di punta degli USA, ma anche un'eccezionale vetrina mediatica, vero e proprio paradiso dei pubblicitari a stelle e strisce, che si rincorrono ciascuno nel tentativo di eccellere. Gli slot si acquistano a suon di dollari, ma altrettanti ne tornano indietro, soprattutto se la pubblicità è azzeccata. Questa è quella che vede special guest Stephen Colbert, arcinoto comico e presentatore TV.

lunedì 27 gennaio 2014

The State of the Union




Domani, 28 gennaio, Barack Obama pronuncerà il suo sesto discorso sullo Stato dell’Unione. Andrà in onda in prime time e a guardarlo ci saranno milioni di americani: per Mr President è l’occasione per riconquistare la fiducia degli elettori, dopo un difficilissimo un anno di presidenza: l'anno dello shutdown del governo federale (ovvero la chiusura dei rubinetti monetari di Washington), della travagliata entrata in vigore della riforma sanitaria, del datagate, della crisi delle armi chimiche siriane. 

La Casa Bianca ha lanciato una campagna di comunicazione ad hoc, per coinvolgere i cittadini nella stesura del discorso, di cui ci vengono mostrate le varie fasi di preparazione.


"The State of the Union", una tradizione. La Costituzione americana prevede che il presidente “di tanto in tanto” informi il Congresso sullo stato della nazione e i suoi programmi per il futuro. Nel tempo l’appuntamento ha assunto una scadenza fissa: una volta l’anno, tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, il presidente degli Stati Uniti riferisce al Congresso in seduta plenaria alla presenza dei membri del governo e della Corte Suprema, rendendo conto delle condizioni della nazione e, soprattutto, descrivendo la sua agenda e le sue priorità per l’anno a venire, che lo staff di Obama ha definito come "anno dell'azione". 

The State of the Union




Domani, 28 gennaio, Barack Obama pronuncerà il suo sesto discorso sullo Stato dell’Unione. Andrà in onda in prime time e a guardarlo ci saranno milioni di americani: per Mr President è l’occasione per riconquistare la fiducia degli elettori, dopo un difficilissimo un anno di presidenza: l'anno dello shutdown del governo federale (ovvero la chiusura dei rubinetti monetari di Washington), della travagliata entrata in vigore della riforma sanitaria, del datagate, della crisi delle armi chimiche siriane. 

La Casa Bianca ha lanciato una campagna di comunicazione ad hoc, per coinvolgere i cittadini nella stesura del discorso, di cui ci vengono mostrate le varie fasi di preparazione.

"The State of the Union", una tradizione. La Costituzione americana prevede che il presidente “di tanto in tanto” informi il Congresso sullo stato della nazione e i suoi programmi per il futuro. Nel tempo l’appuntamento ha assunto una scadenza fissa: una volta l’anno, tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, il presidente degli Stati Uniti riferisce al Congresso in seduta plenaria alla presenza dei membri del governo e della Corte Suprema, rendendo conto delle condizioni della nazione e, soprattutto, descrivendo la sua agenda e le sue priorità per l’anno a venire, che lo staff di Obama ha definito come "anno dell'azione". 

venerdì 24 gennaio 2014

Trenta anni fa, la rivoluzione Macintosh





«On January 24th, Apple Computer will introduce Macintosh.
And you'll see why 1984 won't be like 1984».

Si chiudeva così lo spot girato da Ridley Scott per Apple, in vista del lancio del primo Macintosh creato a Cupertino.
Il riferimento – più che evidente – è alle cupe atmosfere del romanzo di George Orwell, metafora neanche tanto velata di un’industria tecnologica senza stile e senza idee, grigia ed omologata. Industria ed atmosfere che Apple intendeva rivoluzionare, creando il “computer per tutti”. 
Il computer utile, ma anche piacevole. 
Il computer tecnologicamente raffinato, ma anche intuitivo.
Primo video virale della storia e prima pubblicità a non mostrare il prodotto reclamizzato, lo spot – lanciato durante il Super Bowl, evento sportivo (e mediatico) di punta negli USA – anticipa di due giorni l’uscita del prodotto, il 24 gennaio, con una con una delle più spettacolari presentazioni di Steve Jobs (guarda).
Rivoluzione pubblicitaria e tecnologica insieme, per la mela morsicata.
Allora si trattava di una scatoletta beige, con uno schermo quadrato ed una grafica innovativa: ma, di fatto, pareva quasi cosa viva, animata.
Destinata a cambiare abitudini e stili di vita.


Leggi anche: 
A brilliant man
Inventare il futuro
La vendetta sette anni dopo




martedì 21 gennaio 2014

Ancora liste bloccate. Ma non dovevamo vederci più?




È più che ragionevole, quando si parla fatti sociali ed umani, non contare su determinismo e rapporti causa-effetto: le variabili in gioco sono troppe ed imprevedibili; numerosi sono i fattori che concorrono a distorcere, aggirare, annullare tecnicismi e costruzioni di ingegneria costituzionale.
Eppure le regole contano e, nel caso di specie, la legge elettorale è importante. 
C'è una cosa che più delle altre lascia perplessi di questa faccenda, ed è la valutazione espressa dalla Corte Costituzionale sulle liste bloccate, secondo la quale il problema sarebbe meramente quantitativo: troppi nomi in lista non garantirebbero un adeguato rapporto candidato-elettore, in termini di 'conoscibilità' dei primi da parte dei secondi.
In altre parole, l'incostituzionalità sarebbe la conseguenza non dell’assenza di preferenze ma dell'eccessiva numerosità delle liste, tale da rendere impossibile all’elettore identificare il candidato.
Via libera, invece, a liste bloccate, purché con meno nominativi.

Ma il nodo centrale, la sostanza, risiede, invece, proprio nella selezione. Avere, come nella proposta di Renzi, di nuovo liste bloccate, anche di soli 4, 5 o 6 nomi, senza preferenze, non risolve il vizio che - sia pure in maniera più massiccia - affliggeva il Porcellum. Una selezione – quella ottenibile con la legge elettorale – tardiva (i giochi si fanno soprattutto nelle segreterie di partito), ma non di meno importante, per garantire un sia pur residuo spazio di manovra all'elettore
Sarebbe auspicabile, cioè, non solo conoscere, ma conoscere e (di conseguenza) selezionare.
Insomma, di nuovo si vota il partito, non l’aspirante deputato. 
Di nuovo il cittadino non è messo nelle condizioni di scegliere tra i candidati, essendo questi ultimi eletti automaticamente in base all’ordine di presentazione nella lista. 
Ancora una volta, ahinoi, veniamo privati del diritto di decidere a chi attribuire il compito, delicato e impegnativo, della rappresentanza politica. 


venerdì 17 gennaio 2014

La deriva leghista e l'imbarazzo catalano

Matteo Salvini e Roberto Maroni


“Una visita scomoda”. È il titolo, conciso quanto chiaro, dell’editoriale di Enric Juliana sul quotidiano catalano la Vanguardia. Si riferisce alla presenza a Barcellona di Roberto Maroni, leader della Lega Nord e presidente della Lombardia, in Catalogna per promozionare l’Expo di Milano del 2015. Il punto è più o meno questo: il Carroccio avrebbe grande interesse (in primis mediatico) ad identificarsi con la causa catalana (e con la sua tradizione indipendentista), mentre le autorità locali avrebbero pochissima voglia di apparire accanto ad un movimento politico in pieno revanscismo razzista e xenofobo. E monta la polemica: in molti chiedono ad Artur Mas – il presidente de la Generalitat – di non ricevere Maroni, mentre altri ritengono che, se non altro per dovere istituzionale, l’incontro debba esserci. Proteste anche dalla società civile, con tanto di hashtag su Twitter, #MaroniFotElCamp, qualcosa di simile all’italiano “smamma”).
Probabilmente il vertice si farà, ma sarà ridotto ai minimi termini, senza risonanza e, soprattutto, senza conferenza stampa congiunta.
La Lega Nord sta attraversando momenti difficili – scrive Juliana – e necessita di nuove coordinate e di nuovi referenti. Mentre il segretario Matteo Salvini lavora all’alleanza con il Fronte nazionale di Marine Le Pen, Maroni è alla ricerca della “marca catalana”, del marchio catalano.
E Juliana ricorda anche quando – erano gli anni novanta – il leader Jordi Pujol, allora al vertice della comunità autonoma catalana, si rifiutò di ricevere Umberto Bossi.
Il punto è che sono solo apparenti le somiglianze tra le rivendicazioni catalane e quelle del carroccio. «Il movimento catalano è un movimento politico e culturale con oltre 100 anni di storia: una storia europea, democratica e tollerante» si legge nell’editoriale. «La Lega Nord non ha ancora compiuto 25 anni e ha avuto bisogno di inventarsi un passato medievale, dal momento che l’unificazione d'Italia nel 1861 è nata principalmente per volontà delle regioni industriali del nord. Oscilla continuamente tra la protesta fiscale, la xenofobia e l’attacco frontale all’Europa di Bruxelles».
Ed è così che l’imbarazzo catalano diventa il paradigma delle reazioni che suscita – in Italia e fuori – la nuova Lega. 
Un partito – elettoralmente ai suoi minimi storici – che cerca disperatamente di riconquistare media e voti a colpi di razzismo, in un grottesco trionfo del ‘politicamente scorretto’. Matteo Salvini ha impresso un’accellerazione radicale, condita con alleanze azzardate. La strada, insomma, è quella che sembra condurre il Carroccio a diventare un partitino radicale di (estrema) destra, ultrapopulista e demagogico. 

Leggi l'articolo di Juliana. 


Gli altri articoli sulla Lega Nord:


martedì 14 gennaio 2014

Quanto è pericolosa l'ignoranza


Caro Augias, 

oltre alla barbara polemica sull' Inno di Novaro/Mameli e sulla canzone del Piave, cose più gravi sono state dette in questi giorni. L' onorevole Lussana, parlando in tv ha annunciato che tra i piani della Lega c' è anche una «regionalizzazione» della scuola che propone una, per così dire, regionalizzazione della cultura e della letteratura: gli alunni del Nord dovrebbero formarsi su autori settentrionali, quelli del Sud su autori e scrittori del Mezzogiorno. 
In una storia nazionale percorsa da fratture come la nostra, la cultura ed in particolare la letteratura, hanno costituito da sempre flebile ma saldo veicolo di unitarietà. In una storia così difficile, la letteratura ha assunto, ancor di più nei periodi di mancanza di unità politica e di indipendenza, particolare forza come fattore di unificazione sentimentale e culturale. 
Il motivo nazionale percorre tutta la nostra letteratura proprio perché la comunanza di lingua e di cultura poteva garantire, anche nelle età più tristi, un' unità che si realizzava nonostante ogni differenza. 
L' Italia per secoli non fu uno Stato unitario ma sentì fortemente ed espresse nella sua letteratura il proprio esser nazione. 
Non è quindi drammaticamente triste, sbagliato e assurdo voler dividere l' Italia di Pirandello dall' Italia di Manzoni? 
Diletta Paoletti 

Prima di ogni altra cosa il progetto è stupido e inapplicabile nella pratica. Pasolini a quale regione appartiene? Al natio Friuli o al Lazio, anzi a Roma ladrona, di cui ha raccontato la poca gloria residua e le molte miserie? Ma poi quelle miserie appartenevano davvero solo a Roma? La città capitale non è stata per lui il simbolo di un' epoca, di una "cultura", di una civilizzazione che incombe a qualunque latitudine? Il marchigiano Leopardi lo mettiamo a Nord o a Sud? E "il Gran Lombardo" Gadda che scelse Roma e raccontò la sua via Merulana? Chiacchiere da buontemponi di paese che non sanno di che cosa parlano. 
A proposito di Verdi e del Va' pensiero mi ha scritto il musicologo Fabrizio Della Seta dell' Università di Pavia: «Verdi non si sentì mai padano, per tutta la vita cercò di staccarsi dalla provincia, si sentiva di casa a Roma, a Napoli e a Parigi, con Milano si riconciliò in vecchiaia. Credeva nell' unità d' Italia, fu vicino a Mazzini, poi a Cavour. Nel 1848, su richiesta del primo, musicò un altro inno di Mameli e nel ' 49 compose per la nascente Repubblica romana La battaglia di Legnano, con tanto di Lega lombarda e carroccio, che apre con queste parole: "Viva Italia! Sacro un patto Tutti stringe i figli suoi"». 
Forse a Bossi converrebbe di più ispirarsi al siciliano Bellini la cui Norma predice ai suoi Galli: «In pagine di morte della superba Roma è scritto il nome~ Ella un giorno morrà, ma non per voi, Morrà nei vizi suoi». Aggiungo che la Leggenda del Piave, anche richiamata da Bossi, è stata composta da E. A. Mario figlio di un barbiere napoletano della Vicaria. Sono le pericolose sciocchezze degli incolti.

Da Repubblica del 24 luglio 2008
Anche disponibile on-line a questo link

giovedì 9 gennaio 2014

Il sex appeal dell'Ue



Il video è più che efficace e l'ha studiato un'agenzia di comunicazione - Old Continent (web) - che del cosiddetto "branding europe" ha fatto la sua missione. In poco più di un minuto, tutto ciò di cui si occupa l'Ue e che, però, non finisce nelle prime pagine dei giornali.

Detto in altre parole, "Many not sexy things, that still matter"

mercoledì 8 gennaio 2014

A Riga lo chiamano Eiro

Che un paese voglia, oggi, entrare nell'Euro è sconcertante sotto vari punti di vista. Ma per uno stato come la Lettonia, l'ingresso è più che sensato. 


È più o meno questo il senso dell'articolo dell'Economist - non certo sospettabile di acritiche forme di europeismo - a commento dell'ingresso di Riga nell'eurozona, avvenuto in corrispondenza del nuovo anno.

«Le ragioni risiedono in una miscela di economia e politica: i costi di una moneta indipendente aumentano per le piccole economie, mentre i benefici si restringono. Lasciandola fluttuare, cresce il rischio di attacchi speculativi e di destabilizzanti flussi in entrata di capitali vaganti. Il margine di manovra della politica monetaria è limitato".

«Per questo motivo - prosegue l'articolo - la Lettonia è membro de facto della zona euro per anni: la vecchia valuta, il lat, è stata ancorata all'euro (e prima ancora alla valuta fittizia del FMI, lo Special Drawing Rights). L'unica flessibilità cui la Lettonia dovrà rinunciare è la possibilità di svalutazione: una scelta che ha evitato durante la grande recessione che seguì lo scoppio di una bolla finanziaria ed immobiliare nel 2008»

Se gli osservatori (soprattutto esterni) plaudono, «i lettoni non salutano l'euro con particolare entusiasmo.  Alcuni rimpiangono la vecchia valuta - il  lat - prezioso simbolo della sovranità ritrovata (per approfondire la storia del lat, nato nel 1922 e resuscitato nel 1993, leggi questo articolo). Ma la ragione principale è un cinismo diffuso, unito ad una forte diffidenza verso la classe politica. Decine di migliaia di persone hanno lasciato il paese dopo l'indipendenza. Anche se l'economia cresce oggi molto velocemente ora la più rapida crescita in Europa , sono ancora in molti a rimanere indietro»


«L'arrivo dell'euro - aggiunge l'Economist - è stato accompagnato da un simile scetticismo
 in Estonia, vicino settentrionale della Lettonia e di dimensioni analoghe, dove la moneta unica è ormai considerata un successo. L'ingresso nell'eurozona ha dato impulso al commercio ed agli investimenti, riducendo i rischi e i costi di transazione».

C'è poi la politica. Fare parte della zona euro significa per la Lettonia entrare nella stanza dove vengono prese le decisioni più importanti. Per un paese che è stato cancellato dalla carta in un accordo segreto tra l'Unione Sovietica e la Germania nazista nel 1939, i vantaggi dell'inclusione nel processo decisionale sono piuttosto chiari. Per di più, la crescente influenza della Russia nella regione ex sovietica è molto sentita in Lettonia».

Ma far parte del club è una cosa. Goderne dei benefici, un'altra. Anche al tasso di crescita del 4 % di oggi, ci vorranno molti anni prima che i lettoni superino l'eredità di quattro decenni di isolamento forzato e di arretratezza e dell politiche, sconsiderate e incompetente, degli anni successivi». 

L'articolo originale sull'Economist: leggi