mercoledì 30 novembre 2011

Il difensore



Ieri difendeva Nicole Minetti dall'assalto dei giornalisti. Oggi dovrà difendere se stesso, dalle pesanti accuse di traffico organizzato di rifiuti illeciti e corruzione. Ecco la performance di Franco Nicoli Cristiani (Pdl), vicepresidente del consiglio della Regione Lombardia da stamane in carcere. 

martedì 29 novembre 2011

My name is bond, Eurobond



Eurobond sì o Eurobond no? Eurobond sì. E a parlare non è uno qualsiasi, ma Jacques Delors, uno che l’Europa l’ha fatta (è considerato tra i padri nobili dell’Ue), l’ha guidata (dal 1985 al 1995 è stato Presidente della Commissione europea) e l’ha vissuta da dentro (celebre il suo impegno per il completamento del mercato interno, per la coesione regionale e per l’unione monetaria). E, strano ma vero per i tempi che corrono, la ama. Sempre oggettivo, mai ipocrita, non ha mancato di sottolinearne, in passato, le stranezze: celebre la frase con cui definisce l’Ue “un oggetto politico non identificato”, parafrasando l’acronimo attribuito agli Ufo. E oggi, preoccupato per i destini della “casa comune” che ha contribuito a costruire, non si tira in dietro. Interpellato (molte le interviste negli ultimi tempi, al Corriere della Sera, a El Pais e al The Guardian, solo per citarne alcune), non si limita ad interpretare la cronaca e la politica di Bruxelles, ma fa proposte concrete. Tra queste, quella dei tanto dibattuti Eurobond, attorno cui si gioca non solo il sì o il no tedesco, ma anche il futuro dell’Unione (monetaria ed europea).
Ma andiamo con ordine. Primo: cosa sono questi famigerati Eurobond? Sono titoli di debito pubblico, emessi – diversamente da BTP italiani o Bund tedeschi – a livello europeo. Secondo: a cosa sono destinati? Nella sua proposta originaria, Delors li aveva immaginati come modo per finanziare gli investimenti pubblici e, quindi, la crescita. «Avevo proposto le euro-obbligazioni nel 1993, per finanziare i grandi progetti infrastrutturali», spiega al Corriere. Ma oggi, gli Eurobond (astutamente ribattezzati stability bond) servirebbero anche (e soprattutto) a garantire la stabilità dell’Eurozona, mutualizzando, anche se in parte, i debiti europei. Questo significherebbe creare un meccanismo per sostenere i Paesi in difficoltà e per garantire a tutti i Governi la possibilità di finanziarsi sul mercato attraverso emissioni obbligazionarie comuni. I risultati? Meno speculazione e riduzione degli spread.
Come convincere i tedeschi? Non è semplice, anche perché per loro l’operazione avrebbe degli svantaggi (soprattutto in termini di maggiore costo di finanziamento del proprio debito e un rischio superiore a quello dei Bund tedeschi). Inoltre, per Angela Merkel è più che mai difficile far accettare all’opinione pubblica una misura di “socializzazione del debito”. Ma, a confronto, sono molto maggiori i costi derivanti dalla lentezza e dall’inazione delle istituzioni europee – spiega l’ex presidente della Commissione – e gli Eurobond produrrebbero effetti di scala con un ritorno positivo per tutta Europa.
Insomma, secondo Delors, per l’Eurozona sarebbe opportuno arrivare quanto prima ai titoli obbligazionari comuni, in una doppia veste: quelli “pro debito”, emessi dal Meccanismo di Stabilità (ESM) e quelli pro investimenti, emessi invece dalla Banca centrale europea. Nel primo caso, con un effetto stabilizzante nel breve periodo, nel secondo, per cementare crescita e coesione a lungo termine, spiega al The Guardian in un articolo intitolato, non a caso, “Europe must use bonds to fight the debt crisis on two fronts”. 
Se questo non accadrà, l’Europa rischierà di essere un oggetto non solo non identificato ma, ahinoi, inesistente. 

venerdì 25 novembre 2011

Mayday


Oliver Schopf



"When the Titanic sank in 1912, even its first-class passengers ended up in the sea"

- Quando nel 1912 il Titanic affondò, anche i passeggeri di prima classe finirono in mare

dall'editoriale di Mark Gilbert, Lukanyo Mnyanda e Emma Charlton su Bloomberg, a proposito della scelta della Germania di non appoggiare la creazione degli Eurobond per risolvere la crisi del debito. 

giovedì 24 novembre 2011

In vino veritas



È un DOC. Più precisamente è un Grechetto, prodotto con le uve delle colline umbre. Ed è più che mai solidale. Stiamo parlando del vino Ásylon, realizzato – con il sostegno di Caritas Umbria e dell’associazione Libera – dall’azienda agricola annessa all’(antichissimo) Istituto Agrario di Todi. Il tutto, con il patrocinio dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati. Perché proprio ai rifugiati, infatti, saranno destinati i proventi della vendita di questo vino speciale. In che modo? Andando a finanziare borse di studio, che permetteranno loro di formarsi presso l’istituto di Todi, specializzandosi dunque nel settore agricolo, attraverso corsi di qualificazione professionale e percorsi di studio quinquennali. Una doppia risorsa, insomma: per le persone (che avranno l’opportunità di ottenere importanti qualifiche) e per il territorio, che potrà giovarsi di personale formato. Un circolo virtuoso, in grado di mescolare agricoltura e solidarietà, ma anche commercio ed eticità, andando a vantaggio di – e questa volta nessuno è escluso – singoli e comunità.  «I rifugiati possono così dare un senso al permesso di soggiorno – spiega, appassionata come sempre, Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato ONU – e non è un caso che questo progetto parta dall’agricoltura». Già, perché nel settore agricolo (ma non solo), spesso si concentra quell'Italia sommersa che fa affari con lo sfruttamento degli immigrati e con l'economia esentasse. Quello sfruttamento senza scrupoli (drammaticamente  portato in evidenza – per fare un esempio – dai fatti di Rosarno del 2010) che corrompe le campagne italiane, che deforma il concetto stesso di lavoro, rendendolo somigliante a moderne forme di schiavitù. Interviene proprio su tutto questo il progetto Ásylon, dal momento che «con questa iniziativa pilota – aggiunge Laura Boldrini – possiamo restituire dignità al lavoro». Scusate se è poco. Cin cin. 


venerdì 18 novembre 2011

Media (inglesi) e protagonisti (italiani)



Ultimamente la stampa inglese si è occupata – nel bene e nel male – di noi italiani. Nello specifico di due italiani: Silvio (Berlusconi) e Leonardo (da Vinci). Cosa c’entra – direte voi – l’uomo del Rinascimento, colui che ha unito umanesimo e scienza, con l’altro che – meno virtuosamente – ha unito interessi personali e politica? Niente, se non una coincidenza temporale: nei giorni in cui si consumavano – in mondovisione – le ultime ore del governo dell’imprenditore delle televisioni, infatti, apriva i battenti alla National Gallery di Londra “Painter at the Court of Milan”, l’imponente mostra dedicata al Maestro italiano. E la stampa inglese ha seguito l’una e l’altra cosa. Con ben diversi atteggiamenti, sa va sans dire.  
Mai, infatti, si sono visti editoriali tanto infuocati nei confronti di un leader estero. Come nel caso del Financial Times che – citando Oliver Cromwell – ha così sbottato: “In the name of God, Italy and Europe, go!” vattene, mentre la copertina del The Economist illustrava un Berlusconi in un clima di basso impero accanto alla scritta “That's all, folks”, è tutto, gente! Ma ancora: “Silvio Berlusconi: a story of unfulfilled promises” (The Guardian) e “Silvio Berlusconi has resigned bringing to an end a tumultuous, 17-year political career which was marred by sex scandals, corruption allegations and gaffes on the international stage.” (The Telegraph).
 Matt Pritchett, The daily Telegraph Uk
Tutt’altra musica – invece – nelle pagine della cultura: gli inglesi sembrano letteralmente perdere la testa per Leonardo da Vinci, arrivando addirittura a perdonarci (forse) vizi ed eccessi odierni. Una “mostra stupenda” dedicata ad un “talento sconfinato” (boundless talent), scrive il The Independent, mentre il Telegraph apre la sua lunghissima review complimentandosi – e l’orgoglio  è evidente – con la National Gallery, per essere riuscita a portare sotto un unico tetto le più eccezionali opere dell’Uomo del Rinascimento. E proprio all’autore della Gioconda, l’ex premier si era paragonato, qualche tempo fa, in uno dei suoi sussulti di narcisistica auto celebrazione (il video).

Due italiani visti da Londra, “due Italie” portatrici di simboli e significati che più diversi non potrebbero essere. Casuale contrapposizione, certo. Ma curiosa. Anche perchè oggi servirebbe, eccome, recuperare un po’ di quello spirito del Rinascimento che in fondo è tanto simile – e lo spiega bene Roberto Benigni – ad una resurrezione. Che sia oramai tempo di Quaresima?

mercoledì 16 novembre 2011

martedì 15 novembre 2011

Dr. Jekyll e Mr. Hyde





Partito di lotta, partito di governo e ancora partito di lotta: ecco, in breve, l’ondivago percorso politico della Lega Nord che in queste ore si dichiara, orgogliosa, partito di opposizione, quasi a tirare un sospiro di sollievo dopo che – negli ultimi mesi – non poco malcontento era stato espresso dalla base, stufa di Berlusconi e dei suoi scandali. La doppia personalità, ben inteso, non è una novità (Pci docet) e lo stesso Bossi aveva parlato – già nel lontano ’93 – di “Lega di lotta e di governo”. Ma certo è che, ora, per recuperare consensi occorre recuperare il passato.
Per alcuni esempio virtuoso (ha saputo trasformarsi senza perdere i suoi caratteri identitari di fondo), per altri ennesima dimostrazione (tutta italica) di pratiche, per così dire, trasformistiche, la Lega Nord – partito territoriale per eccellenza (il suo radicamento sul territorio fa invidia ad altri) – era, eccome, un partito di lotta, intriso di antipolitica. Nel corso degli anni ’90, infatti, la principale mission politica del “Carroccio prima maniera” è stata – oltre, ovvio, al tentativo di autonomizzazione delle regioni settentrionali – proprio quella di canalizzare e cavalcare la contestazione alla politica italiana, il disprezzo montante per i partiti tradizionali e per le altrettanto tradizionali pratiche e consuetudini politiche, il tutto, condito con una buona dose di intolleranza sociale (principalmente contro immigrati e meridionali). Riuscendo persino ad intercettare la domanda di rappresentanza prima destinata ad altri partiti (basti pensare ai successi ottenuti sull’elettorato di matrice operaia, bacino esclusivo – fino a quel momento – della sinistra).
È così che la Lega (con il suo misto di populismo ed etnoregionalismo, fino a quel momento inedito per l’Italia) non ha esitato ad entrare – più volte – nelle tanto disprezzate stanze dei bottoni di “Roma ladrona”, fino ad occupare ministeri importanti, come quello degli interni fino a pochi giorni fa in mano a Roberto Maroni. Ma oggi, tutt’altra musica e la Lega sembra decisa a ritornare alla lotta e ad abbandonare il governo. Crisi di identità? Niente affatto, semplice prevalere – a seconda di dove tira il vento – dell’una o dell’altra anima del Carroccio. Ecco allora che, tra secessione e federalismo, tra un ribaltone e una ricostruita alleanza, si arriva al turbolento scenario attuale.
E, a simboleggiare il rinnovato “vigore” leghista (per non usare altre espressioni, ben più colorite, cui eravamo stati abituati) sta per riaprire – udite, udite! – il Parlamento del Nord, una delle creazioni di quella “invenzione della tradizione” che andò in scena tra il 1995 e il 1997, quando una Lega in calo di consensi, decise di costruire – a tavolino – l’ideale artificiale e artificioso della Nazione Padana. Come si suol dire, a volte ritornano. 

domenica 13 novembre 2011

Come neve al sole

Sciogliersi come neve al sole, Alighiero Boetti, arazzo, 1988






































Si ha un partito personale quando «non è l’associazione che ha creato un capo, ma è un capo che ha creato l’associazione».
Questa frase – scritta (anzi, pronunciata, dal momento che è una conversazione) da Norberto Bobbio in un bellissimo libro, vero condensato di etica civile – mi è tornata potentemente alla memoria osservando il caos che in questi giorni si è impossessato del Popolo delle libertà ora che il suo leader, fondatore e padrone (?) si avvia a lasciare la scena. 
Il libro in questione è Dialogo intorno alla Repubblica – che ho letto oramai dieci anni or sono – e raccoglie le intense conversazioni avvenute tra due studiosi diversi per età e formazione ma uniti da una profonda (quanto rara, soprattutto oggi) passione civile: Norberto Bobbio, uno tra i più importanti pensatori contemporanei (grande il vuoto che ha lasciato) e Maurizio Viroli, italianissima gloria in un’università americana (insegna storia del pensiero politico a Princeton).
Tra i grandi temi politici di cui discutono – diritti e doveri, libertà, corruzione e amore per la patria (ma «non abbiamo verità definitive da proporre», si legge nella prefazione) – c’è un capitolo, “La Repubblica e suoi mali”, in cui – e del riferimento all’allora Forza Italia non è fatto mistero – Bobbio e Viroli si interrogano sulle storture del cosiddetto partito-persona.
Il partito è personale quando vive per e in virtù del leader fondatore, quando è “cosa sua”, si identifica e si sovrappone con la sua immagine e la sua ideologia. Trattasi, in altri termini, di una formazione politica fondata sulla lealtà incondizionata al capo. E in questi quasi venti anni, Berlusconi ha fatto di tutto per accentuare il carattere personalistico del suo “prodotto” politico. Questo, se ci pensate, trova riscontro nei simboli stessi di Forza Italia, prima, e del Pdl, poi: l’immagine (sorridente) e il nome (a caratteri cubitali) di Silvio Berlusconi hanno fatto tutt’uno con il partito, sono serviti ad identificarlo e a dargli sostanza, come pure i grotteschi slogan sul modello di “meno male che Silvio c’è”. E se qualcuno prova a fare la differenza, be’, l’ostracismo è l’unica soluzione (caso Fini docet).
Insomma, il partito-persona è cosa ben diversa dalla personalizzazione della politica, fisiologica soprattutto nella modernità, quella che si ha – ad esempio – in presenza di un leader carismatico e la minaccia più seria ad una repubblica democratica viene proprio da questi agglomerati di uomini fedeli al capo, dal quale altro non desiderano che vantaggi e privilegi, fino a che questi – sa va sans dire – ha da offrirne.
Il “tutti contro tutti” in scena in queste ultime ore nel Pdl (prima e dopo le dimissioni del Premier) somiglia molto al disfacimento dell’esercito di un generale sconfitto: spaccature nel gruppo dirigente, divergenze di vedute e disgregazione. «È sempre azzardato avventurarsi in previsioni – scrive Viroli nel 2001 – ma credo proprio che in questi partiti se scompare il leader fondatore scompare anche il partito». Come neve al sole. 

In mondovisione






































venerdì 11 novembre 2011

Buona la prima

Sei prime pagine del "The Economist", dal 2001 a quella oggi in edicola.
Per capire perché non li abbiamo mai convinti.


giovedì 10 novembre 2011

L'ambasciatore



Dovremmo, in quanto italiani, ringraziare Roberto Benigni. Già perché se c’è un ambasciatore d’Italia che è in grado – anche in questi tempi bui – di fare un elogio così appassionato e vero al Bel Paese, be’, questo è proprio il grande comico e attore toscano.
Dopo un ingresso lento (ha le stampelle) ma non meno trionfale (gli tributano una standing ovation), non potevano mancare – prima di passare alla lettura del XXVI Canto dell’Inferno di Dante – i riferimenti alla cronaca politica. Scoppiettanti: «chiedo scusa per l’ingessatura ma purtroppo mi è venuta addosso una persona che in Italia ha fatto un passo indietro», inizia, strappando fragorose risate al pubblico presente a questo momento celebrativo dei 150 anni dell'Unità d'Italia presso le istituzioni europee. E poi – mescolando passato e presente, storia e attualità – parla dell’Italia. O meglio, ne fa un’ode.
E sfodera subito “l’arma” più potente, quella che tutto il mondo ci invidia, che ci ha dato grandi soddisfazioni (e ce le darebbe tuttora, se solo sapessimo farne tesoro): la cultura. Che, caso unico nell’umanità, è nata prima dello stato. La Gioconda, il David, la cupola del Brunelleschi, ma anche la musica, l’affresco e la prospettiva, e – ovvio – Dante: c’è tanto nelle parole di Benigni. Tutto il trionfo di quell’eccellenza italiana che nei secoli ha invaso il mondo «che è una gioia che mi prende il cuore e l’anima!».
«Anche quando tutto era morte», un italiano, San Benedetto da Norcia (patrono d’Europa) ha messo insieme due parole, “ora” e “labora”, rivoluzionando scienza, agricoltura, filosofia, poesia. Quando in tutto il mondo era carestia e devastazione, gli italiani hanno aperto le porte della modernità: oggi abbiamo lo spread alle stelle ma – senza uno stato e senza una lingua – abbiamo inventato le banche, il credito, la cambiale (e «chi glieli va a richiedere i soldi a Edoardo I d’Inghilterra che non ce li ha mai ridati!»). Ma anche la modernità di Giotto, primo artista pagato per le sue creazioni o Boccaccio intellettuale retribuito per scrivere saggi.  
Ma non è stata sempre e solo gloria. «Voi neanche potete immaginare quante ne abbiamo passate», quanti saccheggi (Normanni e Lanzichenecchi), quanta disgregazione («della repubblica romana, dell’impero»). «Pensate a Carlo Magno, che in tempo di pace si è portato via mezza Roma, o a Napoleone, che in guerra, ha razziato quanto poteva». E poi mille lacerazioni interne, contrasti e minacce: «anche all’Unità, una cosa da non credere».
Ma, qui sta il punto, ne siamo sempre venuti fuori. Perché per Benigni l’Italia non è solo il paese del Rinascimento e del Risorgimento (e già non è poco) ma soprattutto della resurrezione. «È un miracolo permanente».
Gli applausi punteggiano tutto l’elogio, a sottolineare i passaggi più veri e più intensi. Come se ogni italiano, ascoltandolo, riscoprisse cose – conosciute, certo – ma forse troppo spesso dimenticate. E sommerse dalla miseria di oggi. Può sembrare un atteggiamento da vecchia potenza in declino guardare in dietro e consolarsi con le glorie del passato. Forse. Ma tutto ciò è nel nostro dna. E fa bene parlarne. Per poter ripartire. Anzi, per risorgere. 


mercoledì 9 novembre 2011

L’estetica del potere


Immagine tratta dalla locandina del film "Silvio forever"

Se c’è stata una costante nell’atteggiamento di Silvio Berlusconi al potere, ebbene, questa è stata la cura dell’immagine. Un’ossessione che ha attraversato questi (quasi) 20 anni con il preciso scopo di  rimandare – chiara e diretta – un’immagine, appunto, spesso rassicurante, il più delle volte imbonitrice, comunque sorridente. A volte beffarda, ad ostentare una sicurezza che non sempre c’era. Ma – si sa – a contare è quello “che si vede”: la merce si compra per ciò che appare e l’elettore acquirente – questo il Berlusconi-pensiero – deve essere conquistato proprio dall’apparenza.
Allora ecco gli spot patinati (celebre rimane la “calza” che si è detto aver avvolto le telecamere che riprendevano l’allora fondatore di Forza Italia), i (dispendiosi) libri inviati “nelle case degli Italiani”, gli artefatti servizi sui giornali di famiglia. Magia della pubblicità e tattica da marketing che si fondono, in una strategia che lascia molto poco al caso. Una strategia inseguita a tutti i costi, fino a produrre l’immagine grottesca degli ultimi tempi, sempre più artificiale e sempre meno credibile in una patetica quanto illusoria fuga dalla vecchiaia.

Ma tra telecamere velate, trucchi di scena e cambi d’abito – un po’ come se tutto fosse, in fondo, una grande giostra o una commedia dell’arte – gli anni sono passati e, come sempre avviene, il trucco si rovina con il tempo, rivelando impietosamente tutte le debolezze che fino ad un minuto prima nascondeva. Ecco che allora oggi, a parlare più di ogni altra dichiarazione, è quel volto, cupo, quasi trasfigurato, che per la prima volta disubbidisce alla ferrea disciplina del sorridere. Non c’è più spazio per il sorriso, anche se forzato. Non è più il momento di studiare l’immagine migliore da offrire. 
Non è più tempo di mescolare estetica e potere. 

martedì 8 novembre 2011

Tempi supplementari



"Gli italiani perdono le guerre 
come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre"
Winston Churchill

Siamo ai tempi supplementari.

domenica 6 novembre 2011

Viva l'Italia!

Leonard Freed photo Firenze, 1958 © Leonard Freed - Magnum (Brigitte Freed)









C’è un’Italia di cui dobbiamo essere orgogliosi. Molto orgogliosi. Basta solo conoscerla e, soprattutto, conoscerne le storie. Le racconta bene – queste storie – Aldo Cazzullo, nel (fortunatissimo) libro “Viva l’Italia!” edito da Mondadori. Giornalista (prima – per quindici anni – a La Stampa, dal 2003 editorialista al Corriere) e scrittore, Aldo Cazzullo, nato ad Alba, classe 1966, è un grande comunicatore che dà voce a quei personaggi che, più o meno conosciuti, troppo spesso dimenticati, l’Italia l’hanno fatta. Perfetto – il libro – per celebrare i 150 anni dell’unità. Ma senza noia: sono lontane la polvere e l’imbalsamata retorica di certi testi che hanno popolato scaffali nelle librerie e di alcune stanche celebrazioni sugli schermi televisivi.

Al centro Risorgimento e Resistenza, due momenti cruciali, quelli in cui la storia accelera, eccome, ma troppo spesso trascurati: «il primo liquidato – spiega Cazzullo – come affare di pochi, di una ristretta elite di liberali, la seconda come ferro vecchio della sinistra, roba per comunisti». No e poi no: «non è il Risorgimento a fare l’Italia ma sono gli italiani a fare il Risorgimento – spiega il giornalista – basti pensare ai tantissimi i popolani insorti nelle città italiane infiammate dal ’48 ». «Come avrebbero potuto i soli aristocratici cacciare gli austriaci da Milano?». Sono callose le mani dei caduti nelle cinque giornate di Milano, mani di operai, di artigiani, come poté notare Carlo Cattaneo – capo della rivolta – recatosi all’obitorio proprio per capire chi fossero i combattenti morti nella rivolta.

Anche la guerra di Resistenza – secondo Cazzullo – è patrimonio di tutti. Fu fatta dai militari, dai 5000 fucilati di Cefalonia. Fu fatta dagli internati in Germania («rimangono nei lager e rifiutano la guerra fratricida di Salò»). E dai cattolici, da sacerdoti come don Ferrante Bagiardi («vi accompagno io davanti al Signore», le sue ultime parole prima di essere fucilato assieme ai suoi parrocchiani, con i quali scelse di morire). Ma anche carabinieri (basti pensare a Salvo d’Acquisto, « in un gesto nobilissimo si fa uccidere, evitando la rappresaglia per un attentato che non aveva commesso»), alpini, aristocratici e monarchici, come il colonnello Montezemolo, che – mentre governo e Re riparano al Sud – difende Roma, lui, anticomunista che collabora con i gappisti di Amendola.
Storie di uomini. E di donne, che – da leader e combattenti – furono protagoniste di Risorgimento e Resistenza, racconta Cazzullo. Storie di giovani, spontanee patriote senza retorica, che hanno perso la vita con il nome del loro paese sulle labbra, gridando “viva l’Italia!”. Come Colomba Antonietti – 23 anni, di origine umbra morta difendendo la Repubblica romana – o Cleonice Tomassetti, martire della Resistenza («niente paura», incoraggia i suoi compagni davanti al plotone di esecuzione).
Storie di uomini e di letterati. Come quelle di Ungaretti e di Carlo Emilio Gadda, volontari nella Grande guerra, «due grandi innovatori della letteratura italiana del ‘900 vicini – all’insaputa l’uno dell’altro – al fronte (pochi chilometri li dividevano sull’Isonzo)», spiega Cazzullo. Ed ecco le poesie, intrise di guerra, di Ungaretti, soldato semplice della brigata Brescia, 19° reggimento fanteria, e le parole di Gadda, sottotenente prima sul Carso orientale poi tra Plezzo e Tolmino, dove – con il «cuore spezzato» - assiste impotente all’ avanzata dei nemici. E ancora, non dimentica, Aldo Cazzullo, la storia di Resistenza di Beppe Fenoglio, «che salì in collina per opporsi al fascismo». E’ la guerra – nelle sue varie forme – che irrompe nei versi e nelle parole, carica di sangue e di dolore.
Mentre tra le mani scorrono le pagine di questo libro, le lettere impresse sulla carta finiscono col fondersi a immagini e suoni che ci tornano in mente. Si intrecciano, si mescolano a raccontare un’Italia sempre diversa ma, in fondo, così uguale. I versi di una poesia conosciuta negli anni del liceo si mescola alle note di un brano del Risorgimento, a fare da sfondo a queste storie italiane. «Sono molto critico sull’Italia di oggi», ha dichiarato recentemente Cazzullo. Ma subito compensa con l’ottimismo, quello vero, di chi ama il proprio paese. «Il paese delle cento città che – unico – ad ogni crinale di collina offre nuovi scenari» «Ma dobbiamo restare uniti. Il nord non esiste senza il sud e viceversa. Cosa saremmo senza la letteratura siciliana, senza Dante, senza la Roma dei Cesari e dei papi? Senza medioevo e rinascimento?». «Non è difficile sentire l’Italia nella bellezza creata dai suoi artisti», scrive nel libro Cazzullo, quasi a suggerire un legame sentimentale col Belpaese. Louvre, National Gallery, Prado, d’altronde, grondano di «commovente bellezza», tutta dipinta da italiani. C’è tanta Italia di cui andare orgogliosi, ieri come oggi. Possiamo e dobbiamo sentire la bellezza del nostro paese, nella vita quotidiana, nel lavoro, nei racconti, collettivi ed individuali. Nelle storie di famiglia. Nell’accumularsi della memoria. Perché – anche quando sembra non esserlo – l’Italia è una cosa seria.


Viva l'Italia!, Aldo Cazzullo, Mondadori, 2010, pp. 157, € 18.50

venerdì 4 novembre 2011

Lui chi è



Mario Draghi, buona la prima. Insediatosi ufficialmente solo pochi giorni fa alla Presidenza della Banca Centrale europea, l’ex-governatore di Via Nazionale spiazza tutti con una mossa che nulla o poco ha a che fare con l’ortodossia dell’Eurotower, il taglio del costo del denaro: il principale tasso d'interesse, quello di rifinanziamento, scende all'1,25%, con una riduzione di 25 punti base.
La decisione ha convinto tutti, anche gli occhiuti tedeschi (persino il rappresentante della Bundensbank ha sostenuto la scelta, adottata – infatti – all’unanimità), a dimostrazione del grande potere contrattuale dell’italiano a Francoforte. La riduzione ha significato forzare il cosiddetto dogmatismo anti-inflazionistico alla tedesca, secondo cui, con l’inflazione al 3%, (ossia troppo al di sopra del livello desiderato del 2%), non ci si può muovere. E invece Draghi è riuscito dove altri avrebbero fallito.
E le borse plaudono, aprendo in rialzo. Per il resto, Draghi avverte: «il programma della Bce di acquisti di Titoli di Stato dell'area euro resta temporaneo e limitato», ha dichiarato. Convincendo anche per la prudenza mostrata: in conferenza stampa (Video) non ha usato grandi parole, né fatto grandi promesse. Molto pragmatismo e una buona dose di realismo, insomma.
Ma chi è questo italiano che, per competenze e abilità tecniche, attira la fiducia non solo dei connazionali (un recente sondaggio dimostra che – nel Bel Paese – sono in molti quelli che lo preferiscono ai politici nostrani, piazzandolo in testa alle classifiche di gradimento), ma anche dell’Europa tutta? Già perché se è vero (come è vero) che la credibilità internazionale del nostro paese sta toccando – in queste settimane – i minimi storici, proprio il neo-capo dell’Eurotower sembra permetterci di recuperare lustro agli occhi dell’Ue.
Classe 1947, romano di nascita, Mario Draghi – dopo la Laurea in Economia (con Federico Caffè) all’Università La Sapienza di Roma e un periodo di formazione al Mit di Boston – approda alla Banca Mondiale di cui – tra il 1984 ed il 1990 – è stato direttore esecutivo. Numerosi, da quel momento in poi, gli incarichi ricoperti: oltre ad importanti ruoli in aziende e banche (IRI, Banca nazionale del lavoro, Eni e, dal 2002, Goldman Sachs, di cui è stato vicepresidente per l'Europa), dal 1991 al 2001 è stato Direttore generale del Tesoro e dal 1993 al 2001 presidente del comitato per le liberalizzazioni. Nel 1998 ha contribuito al testo unico della finanza (“legge Draghi”) per la riforma del sistema finanziario italiano. Nel 2006, infine, diviene Governatore della Banca di Italia, prima di approdare – e siamo arrivati all’oggi – alla direzione di un’altra banca centrale, quella europea. In una delle congiunture storiche – non c’è che dire – più difficili per economia, finanza ed Europa.   

mercoledì 2 novembre 2011

In principio era il Caos

Il mondo intero sta seguendo con il fiato sospeso il convulso evolversi della crisi dell’Eurozona. Ed è proprio di origine greca – beffarda ironia – l’etimologia della parola che – meglio di tutte – descrive l’attuale “si salvi chi può”: "caos", abisso, baratro. Tra servizi live e aggiornamenti dell’ultima ora, la copertura dei media internazionali è completa, quasi febbricitante. Come febbricitanti sono i mercati, che – per tutto il giorno – hanno reagito schizofrenici ad ogni dichiarazione, lungo un innaturale sali scendi, dopo l’abisso di ieri. Siti web e telegiornali riportano, minuto per minuto, gli eventi di Bruxelles, Atene, Roma. E Cannes, sede – domani – del G20 e dove, già da oggi, si sono svolte le prime proteste.
Dopo aver incassato il sì del governo alla sua proposta di indire il referendum sul piano di austerità targato Ue/Fmi, il primo ministro greco Papandreou vola verso la Croisette, atteso per un pre-vertice con francesi e tedeschi («abbiamo bisogno di chiarezza», dice Angela Merkel). Già perchè lo scenario è più che mai inquietante: l’esito negativo della consultazione popolare voluta da Atene innescherebbe un effetto domino letale per tutti, in primis per Francia e Germania, le cui banche detengono pericolose quote di debito greco.
Il tutto mentre un altro leader in difficoltà, Silvio Berlusconi è impegnato in queste ore in un consiglio dei ministri straordinario, nella difficile impresa di provare a tradurre in realtà le misure promesse all’Europa, cercando nello stesso tempo di tenere assieme una compagine governativa oramai in frantumi. E – nel caos – giunge accorata la voce delle istituzioni dell’Unione che, per bocca del presidente della Commissione europea Barroso, chiede l’impossibile alla Grecia: l’unità e la stabilità politica. Senza le quali «le conseguenze sarebbero impossibili da prevedere». 

martedì 1 novembre 2011

7B


Emmanuel Dunand/AFP/Getty Images



7B. Questo acronimo – disegnato sulla torta offerta dai funzionari ONU per festeggiare e dove B sta per billion – ha accolto la nascita di una bambina nelle Filippine. La neonata è stata scelta dalle Nazioni Unite a rappresentare simbolicamente il ragguardevole traguardo dei sette miliardi di persone sulla terra. Ma la notizia non è quella che si sono ostinati a dare ieri i giornali italiani, e cioè la disputa tra chi fosse nata prima, se la piccola di Manila o un’altra bambina venuta al mondo nelle stesse ore in India. La notizia è che siamo 7 miliardi. Una cifra impegnativa, non c’è che dire. Il traguardo – atteso ormai da qualche giorno – è stato dunque raggiunto. E il lieto evento diviene l'occasione per fare il punto su uno dei temi più scottanti del pianeta, quello della crescita della popolazione.
Ma quanti siamo oggi rispetto a qualche decennio fa? Se siete curiosi di scoprire, ad esempio, in quanti erano sulla terra mentre voi emettevate il primo vagito, il sito del The Guardian mette a disposizione un apposito calcolatore e la risposta è a portata di clic. Una (simpatica) curiosità, che diventa lo spunto per una (seria) riflessione. Già perché quanto e dove nasciamo non è cosa da poco, ma influisce eccome su una serie di questioni più che mai centrali: cibo, istruzione, salute, inquinamento e sostenibilità.
Demografi di tutti i tempi si sono interrogati – oscillando tra interpretazioni ottimistiche e visioni catastrofiste – sulla relazione tra popolazione e risorse. Numerosi studiosi ci hanno parlato dell’esistenza di complessi legami tra popolazione, sviluppo e ambiente. Si tratta dunque di valutare l’impatto dell’uomo sul mondo che lo circonda, con tutto quel che ne deriva in termini di ricchezza, povertà, mortalità e morbilità.   
E allora proviamo ad interpretare il dato. Se il record sta a significare che l’aspettativa di vita globale è aumentata (in altre parole, si vive più a lungo), è altrettanto vero che le disparità sono ancora molto forti e non tutti hanno beneficiato di questo salto di qualità. «Un simile traguardo rappresenta una sfida, un’opportunità e ci chiama all’azione», spiega Babatunde Osotimehin, Executive Director presso il Fondo delle Nazioni Unite sulla popolazione (United Nations Population Fund, UNFPA), in occasione della presentazione del Report The State of World Population 2011
«Nei paesi in via di sviluppo ci sono ancora 215 milioni di donne in età fertile che non hanno accesso alla pianificazione familiare volontaria, mentre milioni di adolescenti non beneficiano di una corretta educazione sessuale che fornisca loro informazioni su come prevenire gravidanze indesiderate o malattie come l’Aids». E – è chiaro dal rapporto delle Nazioni Unite – il grande balzo in avanti potrà essere fatto solo abbattendo quegli ostacoli giuridici, economici e sociali che rendono ancora lontana la realizzazione della parità tra uomini e donne e investendo adeguatamente sulla popolazione, in particolare sui giovani.
Come lasciare il segno (positivo) in un mondo da 7 miliardi di persone? A rispondere ci prova 7 Billion Actions, innovativa campagna finanziata proprio dall’UNFPA e volta a produrre consapevolezza in merito alle opportunità e alle sfide di un mondo così popolato.  Come? Stimolando governi, organizzazioni non governative, settore privato, media, ma anche università e individui, a porre in essere azioni che abbiano un impatto socialmente positivo in settori quali, tra gli altri, povertà e disuguaglianza, condizione femminile e ambiente. Non solo informare – questo il motto dell’iniziativa – ma anche mobilitare persone, condividere idee e raccogliere proposte.