mercoledì 29 febbraio 2012

Più che amici

Omar Sy e Francois Cluzet in "Intouchables"
























Prendete gli opposti e metteteli insieme. La caotica e rassegnata banlieue parigina e il centro della città, charmante e composto. La precarietà di una vita senza lavoro (ma con il solo sussidio di disoccupazione) e gli agi di una ricchezza che si tramanda da secoli. L'alta borghesia e il sottoproletariato (extra)urbano. Ecco, prendete questi elementi, metteteli insieme, mischiateli e lasciatevi sorprendere dall’insolito risultato. È questa la sorpresa di Intouchables (riduttivamente tradotto, nella versione italiana, con il poco azzeccato “Quasi amici”), film di Olivier Nakache e Eric Toledano, che ha fatto il boom in Francia e non solo, conquistando critica e pubblico.
Philippe (Francois Cluzet) è un uomo raffinato, ricco e colto, al quale, però, la vita non ha sorriso: dopo aver perso precocemente la moglie della quale era profondamente innamorato, rimane vittima di un incidente che gli causa la completa immobilità. Driss (Omar Sy) è un giovane originario del Senegal, cui lo squallido grigiore della periferia urbana ha rubato il futuro.
Come si incontrano due mondi tanto lontani? Grazie ad un annuncio: Philippe cerca un collaboratore personale. Driss risponde all’annuncio. Non certo per ottenere il lavoro, ma solo per dimostrare di cercarlo: quello che basta, insomma, per rinnovare il sussidio di disoccupazione. E, colpo di scena, viene assunto. Cosa che cambia la sua vita. E, soprattutto, quella di Philippe.
Drammatico, direte voi. Niente affatto: commedia. Humor è, infatti, la parola magica del film, il passe-partout che apre le porte ad un’umanità vera e genuina e le chiude al pietismo e alla commiserazione. Si parla di disabilità, sì, ma in modo nuovo, dissacratorio. Al bando l’ipocrisia e quella solidarietà melliflua e un po’sdolcinata, cui – più o meno consapevoli – siamo abituati. È così che il “ciclone Driss” entra nella vita imbalsamata di Philippe: entra nel suo ambiente dove tutto ha un posto, dove tutto ha un significato e, soprattutto, una regola. Ma capisce meglio di tutti gli altri i suoi bisogni (tra intoccabili, del resto, ci si intende): “non ha pietà” nei suoi confronti, ma lo scuote e gli restituisce la voglia, il gusto, di vivere e di trasgredire.
Un umorismo quasi british, tanto è assurdo e sottile, surreale, a tratti scomodo. Schiodando tabù finora intoccabili e sfidando il perbenismo, il film ci racconta una storia (vera) dove razza, disabilità e disuguaglianza sociale si annullano e si fondono nel più umano e intenso dei rapporti.
Chapeau



domenica 26 febbraio 2012

Aria di Oscar



Woody Allen e la cerimonia degli Oscar? Due elementi difficilmente conciliabili: il regista newyorkese si è sempre rifiutato di parteciparvi, anche quando uno dei suoi film,  Io e Annie, vinse ben quattro statuette. Ma, come sempre, c’è l’eccezione che conferma la regola. Nel 2002, Allen decise di accettare la richiesta della Academy of Motion Picture Arts and Sciences: a seguito dei tragici attentati dell’11 settembre, fu invitato per rendere un tributo tutto speciale alla città ferita, raccontando l’importanza della Grande Mela per il cinema.

Chi meglio di lui? Accettò («per la mia città, qualsiasi cosa») e varcò la soglia del Kodak Theatre di Los Angeles. Delizioso il monologo, come pure il medley di tanti film con un unico filo conduttore: New York.

Ecco il gustosissimo video (prendetevi questi 9 minuti, li merita).
Nell’attesa degli Oscar di questa sera. 


credits: cattivamaestra

giovedì 23 febbraio 2012

È il denaro, bellezza

Marinus van Reymerswaele, Il cambiavalute e sua moglie, 1540
Per anni gli italiani si sono nutriti del mito del self made man equivocamente (e immeritatamente) incarnato da Berlusconi.
Per anni hanno incensato l’imprenditore-politico, benevolmente invidiandone le ricchezze e trascurando i modi poco limpidi attraverso cui, in buona parte, se le era procurate.
Per anni hanno visto in lui l’incarnazione di quello che avrebbero voluto essere, l’idea immaginaria e idealtipica di se stessi, il desiderio recondito, il sogno nel cassetto.

E oggi?

Oggi tutti a prendersela con i ministri del Governo Monti (ottimo come sempre il Buongiorno di Gramellini su La Stampa), che – sfidando anni ed anni di opacità e di sommerso – hanno coraggiosamente infranto la tradizione pubblicando i dati relativi ai loro redditi e alle loro proprietà.

Ci saremmo attesi se non un coro di applausi, almeno un cenno di benevolenza e di approvazione per una simile operazione trasparenza.

E, invece, un coro si è levato, ma un coro di scomposte reazioni, infarcite di luoghi comuni e di demagogia, dove la ricchezza – che fino a prova contraria queste persone si sono meritate – viene additata e messa alla gogna, con un’ostinazione degna dei peggiori strali mediovali. La pecunia – improvvisamente – è maledetta e sospetta, mentre stranamente non lo era nell’era dei Berluscones.

Insomma, si condanna quando non c’è da condannare e non si condanna quando c’è da condannare.

Viene da chiedersi ... ma che strano paese è questo?

martedì 21 febbraio 2012

Nuovi equilibri



L’Eurogruppo ha (faticosamente) raggiunto un accordo sui nuovi aiuti alla Grecia. Ma questo lo sapete già. Così come sapete già che 130 miliardi confluiranno ad Atene, sotto il controllo degli osservatori della cosiddetta troika, e cioè dell’Unione, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale.

Quello che – in tutta questa vicenda – risulta più che atipico, è l’entusiasmo quasi europeista di una Gran Bretagna che – per tradizione e per scelte recenti – particolarmente europeista non è mai stata. «Il salvataggio della Grecia è più che positivo per la Gran Bretagna», ha commentato un euforico George Osborne, ministro delle finanze nella Queen’s Land. «Risolvere la situazione greca è un passo fondamentale per risolvere la crisi dell’Eurozona», ha aggiunto. E – va da sé – risolvere la crisi dell’Eurozona rappresenta uno stimolo fondamentale per l’economia inglese.

Ancor più stupefacente è che proprio il Regno Unito figuri – assieme a Italia e Olanda – tra i paesi dai quali è partita l’iniziativa di scrivere un documento programmatico sotto forma di lettera, inviato a Barroso e a van Rompuy. Il testo – che prende spunto da una precedente missiva di Mario Monti al Consiglio europeo – chiede, in poche parole, “più Europa”. Si invoca il completamento del mercato interno europeo (in primis nel settore dei servizi), la realizzazione del mercato unico digitale e del mercato unico dell’energia.
Al fine di potenziare i commerci, si auspicano accordi internazionali, mentre è ritenuto di vitale importanza ridurre quella zavorra di oneri amministrativi che pesano sulle imprese europee. Altro obiettivo della ricetta per la crescita è quello di promuovere – nei singoli paesi – un mercato del lavoro ben funzionante, che crei più opportunità di impiego. E, dulcis in fundo, operare per ottenere un “settore dei servizi finanziari che sia solido, dinamico e competitivo, che crei posti di lavoro e offra sostegno vitale a cittadini ed imprese”.
L’iniziativa italo-britannico-olandese ha poi raggranellato il consenso di altri 9 paesi (Estonia, Lettonia, Finlandia, Irlanda, Repubblica Ceca, Slovacchia, Spagna, Svezia e Polonia). Manca – e l’assenza si nota – la firma di Germania e Francia, i due paesi che più negli ultimi mesi hanno gestito gli affari europei, sollevando da più parti il timore di un asse eccessivamente decisionista ed accentratore.
Che grazie al rinnovato attivismo europeo italiano si siano modificati gli assetti di potere dell’Unione, creando alleanze inaspettate ed insolite?  E’ presto per dirlo. Certo è che oggi collaborazioni ed intese nell’Europa a 27 si sono fatte più fluide e meno prevedibili.
Benvenuti nell’Europa dalle geometrie variabili.
Leggi anche:

sabato 18 febbraio 2012

Five years ago




Cinque anni fa poche migliaia di cittadini – da Springfield, Illinois – lanciavano una improbabile campagna presidenziale. L’obiettivo era quello di costruire un ‘grassroots movement’, un movimento dal basso, un esercizio di quella democrazia basata sul door to door, tutta americana, che lavora sul concetto di vicinato, tra un barbecue e una serata musicale.

Quella campagna improbabile divenne poi probabilissima, e soprattutto vittoriosa, regalandoci il primo Presidente afroamericano della storia americana. Oggi si riparte, per la conquista del ‘secondo tempo’. E la macchina organizzativa (ri)comincia a muoversi. 
Le parole d’ordine? Mobilitare e partecipare

venerdì 10 febbraio 2012

Tu vuò fa' l'europeo




Low profile e understatement. Due parole (anglosassoni) descrivono particolarmente bene lo stile del nostro Presidente del Consiglio Mario Monti, in patria come all’estero. Ma molto (forse troppo e in modo caricaturale) è stato detto della sobrietà dell’era del “loden”. Non è di questo che vogliamo parlare, ora. Quello che ci è piaciuto della visita di Monti negli States è l’immagine di un leader che ha, sì, a cuore il destino del proprio paese, ma che ragiona in termini europei. Parla, eccome, d’Europa, Monti. C’è l’Italia, ma è saldamente e fermamente collocata – nella strategia del professore – in Europa. Scomparsi il senso di fastidio e disagio di un’Italia affetta dal “mal d’Europa”, insofferente, pronta – appena possibile – a disattendere impegni comuni e a deviare da strade condivise. Niente più marachelle, dispetti o leggerezze. Ma profondo senso di responsabilità.

Già, perché se a molti l’Europa dello spread, delle Merkel e dei Sarkozy sta antipatica, è proprio di più Unione (e di una diversa Unione) che abbiamo bisogno. Di una azione fiscale comune (va in questo senso l’accordo firmato non più di dieci giorni giorni fa), di una governance economica comune. Di una politica comune. 

«Ora è il momento di completare il mercato unico europeo – ha spiegato Monti in un’intervista al Time (guarda) – e di attivare politiche di crescita». Un imperativo, questo, su cui ha concordato con Obama: «una crescita che può venire solo da riforme strutturali in grado di stimolare la produttività e l’efficienza europee».

E intanto in Italia – un giorno sì e l’altro pure – si rischia di venire travolti da un fiume in piena di demagogia, di maldestro e malcelato rancore sociale, dove una dichiarazione, più o meno azzeccata, spesso mal compresa, riesce a catalizzare l’attenzione di tutti, azzerando ogni possibilità di un serio e costruttivo dibattito pubblico. Un paese che non sembra volersi lasciare alle spalle vecchie incrostazioni e vecchi stereotipi.

Ma per fortuna c’è chi parla una nuova lingua, quella europea. Facendo un passo in avanti, uscendo da quell’asfittico provincialismo che rischia di farci precipitare nel baratro.
Un perfetto esempio, insomma, di quella ‘leadership europea’ che – da tempo – ci mancava.


Leggi anche:

L’Intervista a Marc Lazar “Ue: cercasi urgentemente un leader”
L’intervista a Enrico Letta “L’Europa è finita. Anzi no”  
L'intervista ad Emma Bonino "Ripartire dal sogno federalista"

lunedì 6 febbraio 2012

Sorelle



Il 6 febbraio – su iniziativa delle Nazioni Unite – si celebra la Giornata Mondiale per l'eliminazione delle Mutilazioni genitali femminili, tra le più gravi violazioni al diritto fondamentale alla salute e all'integrità fisica. Oltre che alla dignità delle donne e delle bambine.

Sister Fa è un’artista senegalese, attiva – nel suo paese e non solo – contro la pratica dell’infibulazione. Perché ancora oggi 140 milioni di donne – ogni anno – sono vittime di questa pratica. Con i suoi brani hip-hop Sister Fa si rivolge ai giovani, cercando di sensibilizzarli al rispetto di se stessi, degli altri e della vita.

“Sono un’artista, una rapper e un’attivista. La pratica della mutilazione genitale femminile ha condizionato molto la mia vita. Ancora ricordo quel giorno. So che le cose stanno cambiando. C’è speranza nel futuro. Io voglio semplicemente parlare per tutte quelle donne che non hanno modo di far sentire la loro voce. Permetto loro di esprimersi attraverso la mia musica”, spiega la cantante.

Dopo un intervento alla House of Commons e una performance in programma oggi a Londra, Sister Fa continuerà a girare il mondo, parlando – anzi cantando – il suo no, che è anche il nostro, a questa e a tutte le altre pratiche disumane.



LEGGI L'INTERVISTA SUL THE GUARDIAN

mercoledì 1 febbraio 2012

Eppur si muove




















Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’Ue. Almeno rispetto all’inazione cui ci aveva abituati. Già perché nel corso del vertice informale svoltosi lo scorso lunedì a Bruxelles, è stato messo a punto un nuovo Trattato, significativamente intitolato “sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria”. L’obiettivo? Essenzialmente quello di introdurre una disciplina fiscale più stringente, per mezzo di sanzioni (quasi) automatiche e forme di sorveglianza più efficaci.

Il trattato – più noto sotto la (mediatica) denominazione di “Fiscal compact” – sarà firmato a Marzo. Molte le novità introdotte. In primis, il rigore di bilancio. I paesi Ue, infatti, si impegnano a mantenere il deficit (grandezza di flusso derivante dalla differenza tra entrate e uscite pubbliche) sostanzialmente in equilibrio, con un valore massimo dello 0,5% rispetto al PIL. Pena l’applicazione di meccanismi correttivi automatici, attuati nel “rispetto delle prerogative dei Parlamenti nazionali”, si legge nella bozza di accordo.

Per quanto riguarda il debito pubblico (quella grandezza di stock che rappresenta il totale degli obblighi accumulati dallo Stato), invece, è stato ribadito il tetto del 60% rispetto al prodotto interno lordo, impegnando gli Stati ad un piano di rientro pari ad 1/20 l’anno.  Meccanismi più flessibili sono stati previsti per permettere l’adeguamento anche a paesi che – come l’Italia – eccedono di molto la soglia.

“È il primo passo verso l’Unione fiscale e aumenterà di certo la fiducia verso l’area Euro”, ha commentato il Presidente della BCE Mario Draghi. Tutti d’accordo, insomma. Tutti tranne uno, anzi, due: Regno Unito e Repubblica Ceca, infatti, hanno deciso di tenersi fuori dal nuovo patto.

Mercati e spread sembrano gradire (i primi sono volati, il secondo è sceso), mentre molte sono le critiche verso quello che – secondo numerosi osservatori – altro non è che un diktat improntato al rigorismo tedesco. Una bella vittoria per Angela, non c’è che dire.


LEGGI IL TESTO DEL TRATTATO