Il terremoto economico finanziario attualmente in atto,
secondo alcuni, potrà persino tradursi in un salto di qualità. Anche lei la
pensa così?
La crisi ha avuto se non altro il merito di mettere in
primo piano l'euro, un progetto rimasto per molti versi incompiuto; dall'altra,
l'opportunità che ci offre è quella di compiere finalmente un cambio di passo
in Europa per quanto riguarda il governo dell'economia e non solo e, qui da
noi, di sgombrare il campo da una serie di alibi che hanno impedito le riforme
strutturali essenziali per la modernizzazione del Paese.
Ma esistono, secondo lei, dei leader in grado di
cogliere queste "opportunità nascoste"?
Per coglierle ci vorrebbero leader lungimiranti con in
mente un grande disegno federalista. Purtroppo non ne vedo all'orizzonte.
Quanto rimane, oggi, del sogno federalista?
L'Europa oggi è davanti ad una rivoluzione possibile a
patto però di essere capace di affrontare le nuove sfide e di credere nelle
radici del progetto fondatore, puntando ad una "Patria europea" e non
ad una "Europa delle Patrie" antistorica e litigiosa su tutto, e
incapace di vedere che oltre il proprio naso c'è un mondo che corre e che
dell'Europa, in definitiva, può fare anche a meno. L'idea degli "Stati
Uniti d'Europa" rimane la migliore carta da giocare a lungo termine per
evitare all'Europa di rimanere periferica rispetto alle cose del mondo.
Non crede però che, in concreto, fu solo grazie al
modello funzionalista (improntato ad un avanzamento graduale e settoriale dell’integrazione)
che si poté costruire l’Europa?
Ma il modello funzionalista non avrebbe mai preso forma
se non fosse stato incardinato all'interno di una visione! Lo stesso Jean
Monnet parlava di "Stati Uniti d'Europa". Io ho sempre preferito il
metodo comunitario a quello intergovernativo ma non nego che, in momenti di
stallo, per rimettere in moto la macchina ci possa essere bisogno di un nucleo
duro di paesi che agiscano da catalizzatori pronti, per il bene comune, a
condividere i rischi e l'onere politico di cessioni di sovranità ulteriori. Il
mio europeismo mi spinge a dire che è meglio un'Europa a due velocità che
un'Europa a velocità zero o in folle...
Rischiando di semplificare, oggi l’alternativa si
gioca tra l’ “Europa dei popoli” e l’ “Europa degli Stati”. Come evitare che la
prima venga sopraffatta dalla seconda?
Credo che occorra dare un segnale che dia un forte senso
di appartenenza. Come per esempio l'elezione diretta del presidente del
Consiglio europeo o della Commissione. E poi puntare, non ad un super-stato
europeo ventilato dagli euro-scettici per bloccare il processo d'integrazione,
ma ad una federazione "light", vale a dire un'entità composta da
stati nazione che detenga però alcuni pilastri di un organismo sovrano: un
presidente ed un parlamento eletto, una Corte di Giustizia, una moneta unica
con relativi meccanismi di governance, una banca centrale, un ministro del
Tesoro, una forza armata unica, un servizio diplomatico comune...Alcune cose le
abbiamo, altre solo parzialmente, altre ancora sono sulla carta solamente.
Tra le fondamenta della costruzione europea vi è,
senza dubbio, il rifiuto dei nazionalismi. Come spiegare, allora, il fatto che
oggi più di 100 membri del PE siano espressione di forze nazionaliste,
euroscettiche e, non di rado, xenofobe e razziste?
Essere cittadino europeo significa godere pienamente di
diritti individuali ma implica anzitutto stato di diritto, tolleranza, rispetto
reciproco, accettazione delle diversità, nonché conformarsi alle regole della
democrazia e contribuire allo sviluppo di una società equa e coesa. Di fronte
ai grandi flussi migratori della nostra epoca, questo "modello
europeo" si è trovato sotto attacco per via della risorgenza
dell'intolleranza e della discriminazione, che ha pure trovato rappresentanza
politica. Questo è un tema che non sottovaluto al punto di aver accettato un
invito del Consiglio d'Europa, che ricordo è custode della Convenzione Europea
sui Diritti Umani, di far parte di un gruppo di personalità con il compito di
elaborare un rapporto entro l'anno prossimo che identifichi l'origine di questo
fenomeno, ne valuti la portata e proponga soluzioni.
Oggi i negoziati sull'ingresso della Turchia nell'Ue
sono in stallo, molti leader europei frenano (da Sarkozy alla Merkel), le
relazioni tra questo Paese e l'Occidente sono in forte crisi (basti pensare
all'intervento israeliano contro la nave turca diretta a Gaza). Da radicale, da
tempo favorevole all’adesione della Turchia, cosa ne pensa?
Penso che non siamo in presenza di una politica
neo-ottomana, come alcuni sostengono, e che la questione non si ponga in
termini binari Est-Ovest ma che la Turchia fa quello che farebbe qualsiasi
potenza regionale che deve affrontare problemi con i suoi vicini. Quando la
Turchia si volge ad oriente in realtà manda un forte messaggio ad occidente: attira
la nostra attenzione sul fatto che la loro zona d'influenza è fuori dalla
nostra portata e questo dovrebbe rafforzare la loro domanda di adesione, non il
contrario. E io sono d'accordo con questa visione anche perché sono convinta
che per i dirigenti turchi l'entrata in Europa rimane un interesse nazionale,
oltre che una priorità strategica. E, a maggior ragione, questo vale per
l'Europa.
Lei ha più volte fatto riferimento alla cosiddetta “introversione
istituzionale” dell’Unione. A cosa si riferisce esattamente? C'è qualche
rimedio?
Per introversione istituzionale non mi riferisco solo
alle lunghissime "pause di riflessione" dopo le bocciature del
Trattato e i sette anni complessivi che ci sono voluti per la ratifica. Mi
riferisco anche al riflesso nazionalistico che scatta ogni volta che si
affaccia una crisi, magari per proteggere qualche campione nazionale o per
paura di ledere situazioni di rendita strategica di questa o quella capitale. L'Unione,
invece, deve tentare di evolvere, adattando i suoi meccanismi istituzionali a
misura delle sfide che questo presenta.
Sul severo ultimatum della Commissione europea all’Italia,
a proposito dell’equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne nel
pubblico impiego, lei ha assunto posizioni....controcorrente rispetto agli
schieramenti politici nazionali. Perché?
L'innalzamento
dell'età pensionabile, con relativa equiparazione, è una necessità e non solo
perché ce lo chiede l'Europa. Nessuno stato sociale è più in grado di garantire
pensioni ultra ventennali. L'aumento della durata di vita ed il declino
demografico fa sì che saremo sempre meno e sempre più vecchi. Secondo il
recente rapporto Gonzales, nel 2050 ci troveremo, in tutta Europa, con quattro
adulti in età lavorativa a mantenere tre pensionati. Ma si tratta anche di
evitare alle donne risarcimenti pelosi che le inchiodano al ruolo di funambole
per ovviare a servizi inesistenti di assistenza e cura in famiglia. Ora il
ministro Tremonti non faccia il furbo: il gettito che se ne ricaverà non deve
servire a fare cassa ma deve essere utilizzato, fino all'ultimo
centesimo, per le politiche di sostegno alle donne, per gli asili nido, per il
doposcuola, per l'assistenza domiciliare agli anziani.
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