lunedì 31 ottobre 2011

Le regioni della cultura



Ci risiamo. La lega rispolvera uno dei suoi cavalli di battaglia, il tormentone della regionalizzazione della cultura. E per nostra sfortuna ci delizia con nobili crociate culturali. Nel “Buongiorno” de La Stampa di qualche giorno fa, Massimo Gramellini riportava una notizia lanciata da un blog che ha dell’inquietante. Ma forse (giudicate voi!) è maggiore la componente comica.
Le cose stanno così: la città di Mantova si sta preparando – con tutta la pompa magna del caso – alle celebrazioni in onore di un suo cittadino (piuttosto) speciale e (certamente) illustre: niente meno che Virgilio, che nel 70 a.C. nasceva in un villaggio non lontano dalla città. Sì, il Virgilio de L’Eneide, ma anche delle Bucoliche e delle Georgiche, assunto da Dante come il simbolo stesso della ragione umana e delle sue più alte realizzazioni.
Ma qualcuno sembra non gradire. Chi può mai – direte voi – fare una levata di scudi contro le sacrosante celebrazioni al poeta (che poi, diciamolo, in fondo se le è forse meritate)? Tal Vincenzo Chizzini, assessore leghista al Turismo al Comune di Mantova, contrario a festeggiare quel traditore (Virgilio, per l’appunto) che ha osato lasciare la terra natia per approdare – quale vergogna! – nelle zone meridionali della penisola.
Famosissimo, infatti (e deve aver colpito non poco Chizzini), l’epitaffio del poeta che recita: «Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenec nunc Parthenope», ossia Mantova mi generò, la Calabria (in realtà l’odierna Puglia) mi rapì; ora mi custodisce Napoli. Meglio sarebbe, propone l’assessore, celebrare Teofilo Folengo, gloria locale (lui sì, dall’inizio alla fine!) e padre della lingua maccheronica.
Ebbene sì, ci risiamo. Ricordo ancora, anni fa, la polemica leghista sull’Inno di Mameli e sulla canzone del Piave. Ricordo ancora il disarmante piano scuola del Carroccio, secondo cui – udite udite ! - gli studenti del Nord dovrebbero formarsi su autori settentrionali, mentre quelli del Sud su scrittori del Mezzogiorno.
Regionalizzare la cultura. Sciocca fantascienza, certo. Ma è una sciocchezza pericolosa. E irrispettosa, soprattutto in Italia. Già perché in una storia nazionale percorsa da fratture come la nostra, la cultura (e in particolare la letteratura), hanno costituito da sempre flebile ma saldo veicolo di unitarietà.
Prosa e poesia – lungimiranti avanguardie - hanno garantito, anche nelle età più tristi, un'unità che si realizzava nonostante ogni differenza. Il motivo nazionale ha intriso di sé parole e componimenti, mentre la comunanza di lingua e cultura ha rappresentato sempre (lontane erano l’unità politica e l’indipendenza), fattore di unificazione sentimentale. Un’Italia che per secoli non fu uno Stato unitario ma sentì fortemente ed espresse nella sua letteratura il proprio esser nazione. Ecco perché, oltre che ridicolo, è tristemente grottesco voler dividere l'Italia di Pirandello dall'Italia di Manzoni. 

sabato 29 ottobre 2011

Il pomo della discordia

















Ebbene sì, ci risiamo. L’Euro – ancora una volta – è il pomo della discordia, bistrattato e insultato da alcuni, fermamente difeso e sostenuto da altri. E questo non solo in Italia, ma anche in diversi paesi del vecchio continente. 
In Europa, in effetti, sono in tanti quelli che in questi giorni hanno segnalato – non senza ragione – le debolezza di una valuta senza retroterra politico. In altri termini, l’euro oggi traballa anche perché è un oggetto valutario senza identità politica, mentre storicamente le monete sono state sempre ancorate ad un soggetto politicamente coerente. Ma questa non è una novità: se ne è discusso infinite volte e anche osservatori genuinamente europeisti non hanno mancato di segnalare questa anomalia, suggerendo i passi da compiere per eliminarla (vedi l’intervista ad Enrico Letta).
Ma l'Euro turba i sonni anche ai paesi che non l’hanno adottato. A seguito della recente decisione di rafforzare la governance europea formalizzando gli incontri dei leader di Eurolandia, i 10 paesi dell’Ue al di fuori dell’area-euro temono che questa nuova “Europa a due velocità” possa in qualche modo danneggiarli. Anche se, infatti, la maggior parte delle politiche rimarranno di competenza dell’Unione a 27, paesi come, ad esempio, Gran Bretagna e Svezia tremano all’idea che le decisioni prese dal circolo ristretto dei 17 possano comunque riguardarli, indirettamente, su materie sensibili come settore bancario, allocazione delle risorse e budget dell’Unione (lo spiega bene un interessante articolo su BBC  News).
E in Italia? Ci pensa Silvio Berlusconi a riscaldare il dibattito con un attacco all’Euro che tradisce il suo bisogno – hic et nunc – di fare dell’Ue il capro espiatorio di misure impopolari. E per compiacere l’euroscettica Lega, partner sempre più bizzoso. Allora nel Bel Paese sta al Presidente Giorgio Napolitano riaffermare la centralità della moneta unica, rispetto alla quale – come ha più volte sottolineato – ogni altra opzione sarebbe a dir poco drammatica.  

martedì 25 ottobre 2011

Secessione?




Terremoto politico in Inghilterra, dove il Primo ministro David Cameron deve fronteggiare – dalla scorsa notte – una delle più grandi “ribellioni parlamentari” sull’Europa mai sperimentate da un Premier conservatore. La notizia – finora trascurata dai principali giornali italiani – non è di poco conto.
Ma andiamo con ordine. Tra malesseri e malumori di matrice euroscettica, è di pochi giorni fa la proposta di indire un referendum popolare niente meno che sulla stessa permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Di fronte a questa eventualità il governo ha optato per una posizione ufficiale, contraria alla realizzazione della consultazione popolare. 
Ieri notte Cameron ha vinto in Parlamento con una maggioranza di 372 voti. Ma il problema (tutto politico) è la sfida lanciatagli dai “ribelli” del suo stesso partito: 80 parlamentari tories, infatti, hanno votato contro la posizione ufficiale del governo e – ora – annunciano battaglia. Si apre, così, una ferita politica non facile da chiudere.
Il Regno Unito, si sa, non è mai stato un paese particolarmente acceso da entusiasmi “europeisti”.  Forte della rete rappresentata dal Commonwealth e della “Special Relationship” con i cugini d’oltreoceano, non ha mai investito molto sulla casa comune europea, da quando – nel lontano 1973 – vi entrò a far parte. E, a conferma di ciò, il paese non si è mai convinto di abbandonare la cara vecchia Sterlina in favore dell’Euro.
A partire dal “I want my money back” della sig.ra Thatcher relativo a questioni di budget (il Regno Unito – allora – finanziava la Politica agricola comune senza avvantaggiarsene più di tanto), numeorsi sono stati i momenti ben poco idilliaci nel rapporto tra la Gran Bretagna e Bruxelles, ma mai come ora la stessa membership inglese era stata così duramente osteggiata. Complici – senza dubbio – le incertezze e i ritardi dall’Ue nella gestione della attuale crisi economico-finanziaria. 

lunedì 24 ottobre 2011

Mr Euro























Tra ultimatum (molto economici e non poco politici) all’Italia e auspici per una rapida uscita dalla crisi, il Consiglio europeo svoltosi ieri a Bruxelles ha prodotto una novità importante: è nata, infatti, una nuova figura, quella del Presidente dell’Eurogruppo, ossia del consesso informale che riunisce i ministri dell’Economia e delle Finanze dei 17 paesi della zona euro.
Basta andare a leggere le Conclusioni del Consiglio Europeo e la figura di “Mr Euro” – questa l’espressione (molto scenografica e poco tecnica) coniata dai media – appare più che mai chiara. Il «Presidente dell’Euro Summit – si legge nel comunicato – sarà designato dai Capi di Stato e di Governo dell’area Euro, contemporaneamente all’elezione del Presidente del Consiglio europeo e per la stessa durata del mandato». Per il momento (le elezioni sono previste per il 2012) ad assumere la carica sarà l’attuale presidente del Consiglio europeo, ossia il belga Herman Van Rompuy.
L’obiettivo di questa decisione? Quello di affrontare la crisi anche e soprattutto in termini di governance economica, procedendo verso una maggiore integrazione tra i paesi che condividono la moneta unica. L’intenzione è quella – si legge ancora nel testo – di rafforzare l’integrazione economica e sviluppare la disciplina fiscale.
Come la prenderanno gli altri dieci Stati dell’Ue? Di certo lo scatto in avanti di Eurolandia si tradurrà per loro in una perdita di influenza, configurando un’Europa a due velocità. Ma il Consiglio, su questo aspetto, è rassicurante: «il Presidente dell’Euro Summit informerà dettagliatamente i paesi extra area-euro sulla preparazione e sulle decisioni dei summit».
La decisione di oggi, inoltre, prelude ad imminenti modifiche («condivise dai 27», si affretta a dire il Consiglio) dei Trattati istitutivi, già invocate giorni fa dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel. Ora resta da vedere se la nuova figura sarà veramente in grado di coordinare i paesi dell’Eurozona, portando ad un inevitabile (e auspicabile) approfondimento dell’unione. E se avranno o meno colto nel segno coloro che proprio nella crisi avevano visto l’opportunità per una maggiore integrazione. 

domenica 23 ottobre 2011

Tweet it!




















Its goodnews that Ghadafi is dead. This serves as an example to other dictators in the world that their time is coming! Congrats Libya! – Jacqueline Nabukalu

We don’t cry over the death of thousands but cheer over the death of one, #gaddafi - @EatingHalalFood, Brooklyn, New York

Gadhafi: China has lost yet another old friends - @FuQingFengWei, China

#Gaddafi might have been a dictator but he’s also a human being, celebrating death by dragging him in streets says a lot about his successors- @MayseNababteh, Jordan

Walk a mile in any Libyan persons shoe and then judge them for rejoicing at the death of #Gaddafi and how they’re handling it @nawwarah82, Khobar, Saudi Arabia

Let's not forget the years of massive hypocrisy in Western relations with Libya -Mamounhattab

Why didn't they try him in Court rather than silencing him by killing him? The West's dirty laundry? - DastanShawais

Libya is now 100% Degaffinated - @Gaddfestrophe

I oppose the death penalty, everywhere. I want to see justice, not revenge. I celebrate not death but the end of 42yrs of tyrrany – Mona

In tantissimi e in tutti i continenti hanno affidato al web le loro reazioni (emotive, ideologiche e politiche) alla morte del Raìs. A ben guardare, c’è da perdersi nella mole di commenti, immagini e video postati dagli utenti della rete in ogni parte del mondo.
Già perché oramai la consistenza, non solo fattuale ma anche emotiva, dei fenomeni globali si misura in quella piattaforma – senza barriere, senza censure ma soprattutto senza confini – che è il web. Basti pensare al ruolo che Social network (Facebook e Twitter su tutti) e blog hanno svolto durante la Primavera araba, per fare l’esempio più significativo degli ultimi tempi. Un ruolo determinante, in termini di scambio di informazioni, ma anche per la capacità di mobilitare e aggregare, dando organizzazione a proteste spontanee.
Così anche nelle ultime tragiche ore del dittatore libico, la piazza virtuale del web ha restituito umori e sentimenti, in una reazione globale tutta giocata (e come poteva essere altrimenti per una delle figure più controverse degli ultimi tempi?) tra gli estremi della gioiosa celebrazione e della pudica prudenza di fronte ad un corpo martoriato. La fine del leader della Jamahiriya ha fatto esultare, riflettere e discutere, tanto che l’hashtag #gaddafi ha rappresentato per ore la prima conversazione a livello mondiale in termini di quantità di interventi.
Non solo commenti, ma anche immagini e video, che hanno spopolato prima su You Tube e Flickr, poi nei principali media televisivi e cartacei, alimentando il dibattito sulla opportunità di veicolare e moltiplicare scene del genere, nell’annosa diatriba tra diritto di cronaca e rispetto dovuto alla morte.
Impossibile semplificare gli stati d’animo del web, di quella agorà illimitata e anarchica dove tutti possono comunicare con tutti parlando di tutto. Dove entusiasmi e speranze prendono corpo; dove rabbia e vendetta si fanno parola; dove gioia e tristezza convivono in una sola schermata.
Questi i mille volti del web. Contraddittori, discordanti, a volte pacati, spesso scomposti. Ma, comunque, profondamente contemporanei. 

venerdì 21 ottobre 2011

Libyan Graffiti

"We are not going back to control. We have liberated ourselves. We have liberated our country," reads elegant text near Second Ring Road (Al Jazeera)


"Have the rebels come or not?" asks Gaddafi, popping out of a man hole, near Souq al Juma'a Road (Al Jazeera)
This picture of Gaddafi fleeing was seen near Dahra bus station in central Tripoli (Al Jazeera)
We are not using force, yet" on Al Fatah Street around the Corniche in uptown Tripoli (Al Jazeera)

giovedì 20 ottobre 2011

Manovre di salvataggio



Sono ore, queste, a dir poco concitate per l’Europa. Ieri sera si è tenuto a Francoforte un supervertice improvvisato tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, insieme ai numeri uno della BCE. L’occasione? La cerimonia di fine mandato di Jean-Claude Trichet, che tra pochi giorni abbandonerà ufficialmente la carica di Presidente della Banca centrale europea in favore dell’italiano Mario Draghi. Cerimonia che – vista l’urgenza della crisi – si è tramutata in un vertice ristretto per cercare, in extremis, soluzioni da mettere sul tappeto nel corso del Consiglio europeo in programma per il fine settimana.
L’allarme economico, infatti, è salito a livelli emergenziali e l’imminente summit tra i leader europei si preannuncia più delicato che mai. Nel frattempo, sembra vacillare l’entente cordiale franco-tedesca: nonostante la condivisione degli ultimi tempi, Merkel e Sarkozy non hanno ancora trovato l’accordo su alcuni aspetti centrali nella gestione della crisi del debito. Ferma la volontà comune di aumentare la dotazione del cosiddetto “Fondo salva stati”, ancora in alto mare sono le scelte circa il funzionamento (procedure e poteri) dello stesso.
Ma che cosa è esattamente il Fondo europeo salva stati? L’European Financial Stability Facilty (questa la dicitura inglese) altro non è che una società di diritto lussemburghese i cui azionisti sono i 17 paesi di Eurolandia. Istituito nel giugno 2010, il suo compito è quello di aiutare gli Stati europei in difficoltà. Come? Emettendo obbligazioni ed altri strumenti di debito con massimo rating (ossia tripla A).
Da chi è garantito? Dai singoli bilanci dei Paesi europei. E – sa va sans dire – questo è il problema, dato che proprio oggi le agenzie di valutazione internazionale hanno annunciato di essere pronte a tagliare l’affidabilità del debito di Parigi, facendo così venire meno uno dei capisaldi dell’intero meccanismo di salvataggio. Il tutto reso ancora più traballante da una Germania con crescita dimezzata ed esportazioni in caduta libera.
E non finisce qui. Recentemente – tra aspre polemiche – il Fondo di  stabilità ha visto aumentate (e di molto) le proprie competenze, decisione che a fine settembre è stata ratificata anche dal riluttante parlamento tedesco. La versione evoluta dell’Efsf prevede che questo possa non solo intervenire sul mercato secondario (acquistando titoli di Stato di Paesi in difficoltà), ma anche agire a sostegno delle banche da ricapitalizzare. Aspetto, quest’ultimo, particolarmente caro a Sarkozy, impegnato nel (difficile) tentativo di salvare dal fallimento gli istituti bancari francesi, nelle cui casse abbondano i titoli dei paesi più deboli. «Le trattative sono in corso», fanno sapere da Berlino, mentre un accorato Barroso implora: «trovate un compromesso». 

martedì 18 ottobre 2011

(Bio)diritto


Questa mattina la Corte di Giustizia europea ha emesso una sentenza secondo cui è vietato brevettare medicinali ricavati da cellule staminali attraverso procedimenti che comportano la distruzione di embrioni umani.
La decisione interviene in una causa avviata da Greenpeace contro Oliver Brustle, il ricercatore tedesco che nel 1997 ha depositato un brevetto relativo ad un trattamento contro il morbo di Parkinson, trattamento fondato proprio sull’utilizzo di cellule staminali a cinque giorni dalla fecondazione.
La Corte federale di Cassazione tedesca – adita da Brustle dopo essersi visto annullare il brevetto dal Tribunale competente – si è rivolta al giudice europeo in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione. Tutto ruota, di fatto, intorno alla definizione di “embrione umano”: il giudice europeo – precisando di «non dovere affrontare questioni di natura medica o etica» ma di limitarsi all’interpretazione giuridica della direttiva europea in materia – ha optato per un’interpretazione estensiva del concetto. «Per cui – spiega la Corte – sin dalla fase della sua fecondazione qualsiasi ovulo deve essere considerato come un embrione umano, dal momento che la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano».
Ma c’è anche un altro aspetto: il diritto europeo vieta la brevettabilità delle utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali e commerciali. Cosa avviene, invece, quando le finalità sono di ricerca scientifica? Secondo il giudice di Lussemburgo, accordare ad un’invenzione il brevetto implica, di per sé, il potenziale sfruttamento industriale e commerciale della stessa. «Di conseguenza – spiega la Corte – la ricerca scientifica che preveda l’utilizzazione di embrioni umani non può ottenere la protezione del diritto dei brevetti», fatti salvi i casi in cui sussistano finalità terapeutiche o diagnostiche.
La sentenza è di quelle destinate a far discutere, come sempre avviene in presenza dei temi della bioetica. E quando – soprattutto – questioni eticamente sensibili diventano oggetto di scelta politica. Numerose, sul web, le reazioni dei cittadini: mentre alcuni salutano con favore la prudenza della Corte, altri gridano all’ennesimo trionfo di pregiudizi a matrice ideologico-religiosa.
Certo è che quando si tratta di definire l’inizio e il fine vita, o di “regolamentare” il nascere, il vivere e il morire, gli animi si scaldano e il dibattito finisce con l’essere, ancora una volta, un triste scontro tra opposte tifoserie. 

lunedì 17 ottobre 2011

Chi viene e chi va



Sempre più vicino il cambio della guardia alla Banca Centrale europea dove, il prossimo primo novembre, al posto del governatore uscente, Jean-Claude Trichet, si insedierà l’italiano Mario Draghi.
Con il suo quartier generale a Francoforte, la BCE è l’istituzione dell’Ue che ha il compito (oggi più che mai ingrato) di controllare l’Euro e l’Eurozona, determinando tassi di interesse e massa monetaria in circolazione. Il passaggio di testimone avviene – sia pure in un mare in tempesta – all’insegna della condivisione e della continuità, tanto che lo scorso agosto Trichet e Draghi hanno scritto a quattro mani la famosa lettera indirizzata al Governo italiano, contenente l’elenco di misure urgenti da adottare.
Francese, 68 anni, Trichet – in ordine, ministro del Tesoro e governatore della Banque de France, dal 2003 alla guida dell’Eurotower – ha combattuto numerose battaglie. Nel corso di estenuanti global meeting, è riuscito a coordinare (o per lo meno a non far scontrare) le diverse Banche centrali, mentre in piena emergenza è riuscito – cosa non da poco – ad agire. Ma soprattutto ha affrontato le resistenze di coloro che, in Germania, hanno fatto di tutto per ostacolare i suoi recenti interventi nel mercato dei bond governativi. E, last but not least, ha salvaguardato la stabilità dei prezzi.
E ora se ne esce di scena – «non ho ancora riflettuto su quello che farò nell’immediato futuro, sicuramente avrò più tempo per le mie nipoti» – con una proposta coraggiosa: quella di creare un Ministro europeo delle Finanze, figura unica di riferimento per tutta l’Eurozona. Già perché, nonostante tutto, Trichet è ottimista sul futuro dell’Europa: «c’è una debolezza nella governance, non nell’Euro come moneta. Nessun paese e nessun leader si assumerà la responsabilità di tornare indietro», ha dichiarato qualche giorno fa in un’intervista al Financial Times. «Per l’Europa ci sono più motivi di unirsi in campo economico-finanziario oggi che all’inizio del 1950 – aggiunge – e credo proprio che la trasformazione dell’assetto mondiale, con l’emergere di Cina, India, America Latina, inviterà ancora di più gli europei ad unirsi».
Quel che è certo è che ad attendere Mario Draghi – dotato di grandi competenze tecniche e di credibilità internazionale – ci sono temi più che scottanti: la questione delle banche e quella dei debiti sovrani, il dibattito sulle regole del mondo della finanza e le decisioni da prendere in merito al cosiddetto fondo di stabilità. Così come la querelle sull’acquisto dei bond governativi italiani e spagnoli. Ma anche – come se non bastasse – temi più tradizionali, come la politica monetaria e la strategia dei tassi di interesse, con l’eterno scontro tra chi preferisce stimolare la ripresa economica e chi vuole combattere l’inflazione.
Tutte questioni che il governatore uscente della Banca di Italia dovrà affrontare scontando alcune difficoltà aggiuntive, a cominciare dal tiepidissimo endorsement da parte del governo italiano. E poi la nazionalità: il fatto di provenire da un Paese con un debito pubblico di tali dimensioni scontenta tutti quelli che avrebbero voluto affidare la guida della autorità monetaria europea ad un paese meno importante ma più virtuoso. E, infine, la facile accusa di una sorta di “conflitto di interesse”, a rendere ancora più difficili (ed imbarazzanti) i già mal digeriti interventi di sostegno ai Titoli del tesoro italiano. «L’Italia deve salvarsi da sola e non sperare nell’intervento di eserciti d’oltralpe» si è affrettato a dichiarare poco tempo fa per fugare ogni dubbio. Come si suol dire, a buon intenditor, poche parole. 

sabato 15 ottobre 2011

Immagini parlanti


John Darkow Cartoon, The Columbia Daily Tribune (Missouri)

Cam Cardow / Ottawa Sun, PoliticalCartoons.com

Vignettisti e artisti descrivono - meglio di tante parole - il clima e i temi fondamentali del movimento Occupy Wall Street che, in giro per il mondo, sta mettendo in discussione gli assetti dell'attuale sistema socio-economico.
Logo by Ji Lee (designer) 


















 Joe Heller, The Green Bay Press-Gazette, Wisconsin





venerdì 14 ottobre 2011

Indignez-vous!

Photo by Spencer Platt/Getty Images

Oggi che gli indignados marciano per le strade di New York, Madrid, Londra e Atene, appare stranamente profetico che solo pochi mesi fa fosse in cima alle classifiche un piccolo libro che proprio del sentimento dell’indignazione fa il suo messaggio principale.

Stiamo parlando di Indignez-vous! (Indignatevi per l'edizione italiana di Add Editore), scritto recentemente da Stéphane Hessel. Classe 1917, Hessel è un diplomatico e politico francese. Durante il secondo conflitto mondiale prese parte alla Resistenza francese e – subito dopo – ebbe «la fortuna», come la definisce lui, di partecipare alla stesura della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, poi adottata dalle Nazioni Unite a Parigi nel 1948.
È un vero e proprio «appello all’indignazione», questo minuscolo pamphlet divenuto best seller.  Indignazione per cosa? Va subito al sodo, Hessel: «il divario tra i più ricchi e i più poveri non è mai stato così significativo e mai la corsa al denaro e la competizione erano state a tal punto incoraggiate».
Punta il dito contro la dittatura dei mercati finanziari «che minacciano la pace e la democrazia». E nei giorni di Occupy Wall Street, nelle ore in cui Main street assedia il cuore pulsante del financial district, il suo j'accuse sembra proprio una profezia avverata.

Ma lungi dall’incitare alla violenza, Hessel esorta ad «un’azione civile risoluta», indicando nella non violenza e nel rispetto dei diritti la strada maestra. Per liberarsi - aggiunge - dal meccanismo perverso del “sempre di più” (nei consumi, nella finanza e nella scienza), pericoloso vortice che ci trascina ogni giorno più in basso. 

Più che un libro (di cui non ha l’organicità),  Indignez-vous! è un piccolo quaderno di appunti (un po’disordinati) che Hessel vuole condividere, soprattutto con i giovani. Mettendoli in guardia dal «peggiore degli atteggiamenti»: l’indifferenza. 
Ossia la rinuncia – perdente, menefreghista e senza vita – alla capacità di indignarsi e all’impegno civile che ne consegue. 

Indignatevi, Stéphane Hessel, add Editore, 2010, pp 61, € 5.00

mercoledì 12 ottobre 2011

(Dis)unione europea?


Riassumendo, questa è la situazione. L'Europa è alla vigilia di un Consiglio europeo scottante come non mai e, proprio per questo, posticipato di qualche giorno per propiziarne l'efficacia (si terrà, alla fine, il prossimo 23 ottobre). Già perché questa volta si tratta di decidere la strategia complessiva sulla crisi del debito sovrano e su tutte le questioni ad essa collegate, incluso il famoso fondo salva stati. Ma anche (e soprattutto) sul nodo rappresentato dal salvataggio degli istituti bancari. Una fumata nera sarebbe, quindi, deleteria.

Nel frattempo però l'Unione sembra tutto fuorché unita. Nel fine settimana il vertice franco-tedesco – iniziativa salutata con favore anche da Obama – ha scoperchiato, nel vecchio continente, un vaso di Pandora pieno zeppo di mai sopite gelosie e malcelate rivalità. Mentre Merkel e Sarkozy – al loro ottavo tête-à-tête dall’inizio della crisi della zona euro – ridavano ossigeno alle Borse con la loro decisione di ricapitalizzare le banche in difficoltà, infatti, qualcuno ha puntato il dito contro il cosiddetto ‘asse franco-tedesco’. 

Il primo a dare vita a questo (quasi) caso diplomatico e ad esternare il j'accuse è stato Franco Frattini. Il Ministro degli esteri italiano ha definito il vertice bilaterale non solo inutile ma anche fuori luogo. Dal canto loro Francia e Germania si difendono. Lungi dal voler creare un Direttorio – si affrettano a riferire fonti francesi – men che meno imporre decisioni a due. Più piccata la Germania, che tira in ballo le proporzioni delle economie, come a dire chi conta di più è normale che prenda l’iniziativa.

Ma l'entente Merkel-Sarkozy sembra non andare giù nemmeno a Romano Prodi, perché – oltre a bypassare le istituzioni comuni – susciterebbe non poca diffidenza negli altri paesi. Numerosi osservatori, invece, si concentrano non tanto su quello che Francia e Germania fanno ma su quello che l’Italia non fa. Da Enrico Letta (pd) a Antonio Puri Purini (ex ambasciatore italiano a Berlino), in molti accusano il governo italiano di aver perso terreno in Europa, in termini di prestigio e peso contrattuale.

Dal canto suo la Commissione europea interpreta l’incontro franco-tedesco come «un contributo» alla preparazione dei lavori del vertice che riunirà capi di Stato e di Governo alla fine del mese.
«Dobbiamo dimostrare di essere determinati a superare le difficoltà» chiedono Barroso e Van Rompuy, rispettivamente Presidente della Commissione europea e Presidente del Consiglio Ue, in una lettera indirizzata ai leader dei 27 paesi. Mentre il Presidente della Banca centrale europea, Trichet, lancia un preoccupante monito: la crisi è peggiorata e le istituzioni devono reagire rapidamente, basta con i ritardi. «Abbiamo i minuti contati».

Tra appelli, moniti e ripicche, quel che è certo è che senza un intervento deciso dell’Unione – l’unica a poter agire efficacemente – la situazione è destinata a peggiorare. E di molto.

sabato 8 ottobre 2011

Le parole contano

Alighiero Boetti, Quando le parole sono stanche, arazzo, anni '80






Quando mi è caduto l’occhio sul titolo di questo piccolo libro mi sono subito incuriosita. “Sulla lingua del tempo presente”, un titolo dal sapore retrò, tanto old-fashioned da riportarci dietro nel tempo, fino all’epoca dei classici, quando i titoli dei saggi latini cominciavano con “De” o, più recentemente, a qualche dissertazione settecentesca. Ed è proprio un saggio questo di Gustavo Zagrebelsky, un saggio breve e affilato, tagliente, quasi a suggerire che (ma del resto lo sapevamo già) a contare non sia il numero delle pagine ma il significato racchiuso in esse.
Poche pagine appunto – 58 per la precisione – per riflettere sullo stato del nostro linguaggio, hic et nunc. Già perché oggi in Italia, secondo il noto costituzionalista, docente universitario e giudice della Corte Costituzionale, siamo immersi – volenti o nolenti – in una modalità espressiva omologata e, quel che è peggio, degenerata. «La nostra vita pubblica si esprime in un linguaggio stereotipato e kitsch», afferma l’autore. La politica parla una lingua piatta, uniforme, sbiadita che tradisce – se è vero che nel linguaggio è racchiusa una visione del mondo – un’omologazione di vedute.
Ecco che allora proliferano espressioni rubate dal mondo imprenditoriale: la politica nostrana si vuole affermare come politica del “fare”. In un’«azienda Italia» in cui tutti devono «fare squadra» e puntare dritto, a tutti i costi e quanto prima all’azione, l’ideologia aziendalista e il linguaggio che ne consegue esaltano il  momento esecutivo, ignorando completamente quello deliberativo, in cui contano anche (e soprattutto) il pensare, l’ascoltare, il dibattere e il deliberare. 
Ma c’è spazio anche per locuzioni come “scendere in politica” e “scendere in campo”, l’una metafora mistico-religiosa ad indicare la discesa del salvatore di turno; l’altra, più profanamente, metafora sportiva. Cosa dire poi della logica dei buoni sentimenti in svendita di cui abbonda il linguaggio di certa politica? Trattasi dell’uso di parole quali amore o dono, il più delle volte esercizio di «pura e tronfia retorica», con subdole finalità imbonitrici.
Per finire con una riflessione sul politically correct: osteggiato perché ipocrita, combattuto perché conservatore, oggi non esiste più e i tabù sono tutti caduti – spiega Zagrebeslky – perché, almeno così dicono, quello che conta è il contesto in cui certe espressioni vengono usate. Ecco che allora oggi è politicamente corretto il dileggio, la scurrilità, l’aggressione verbale e la volgarità, così come la banalizzazione dei problemi e la rassicurazione consolatoria (anche quando infondata).
Uno spazio di riflessione – quello aperto da Zagrebelsky – dove linguistica e politologia si incontrano, per ricordarci che, anche quando non sembra, le parole contano. Eccome. 


Sulla lingua del tempo presente, Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, collana Vele, 2010, pp. 66, € 8.00

giovedì 6 ottobre 2011

A brilliant man


Oggi il mondo saluta Steve Jobs, forse il personaggio che negli ultimi tempi ha meglio incarnato il sogno americano, con la sua grande impresa cominciata dentro ad un garage nella Silicon Valley e approdata nell'olimpo dell'high tech.

Visionario e creativo, ma anche coraggioso e tenace. Inspiring direbbero gli inglesi.
Sì, perché con il suo carattere, carismatico quanto basta, ha rivoluzionato abitudini e azioni di milioni di persone.

Inspiring, soprattutto per i giovani, che forse trovano nel mondo Apple la risposta più genuina e a portata di mano ad un naturale bisogno di creatività e immediatezza, di cose non solo utili ma anche belle.

Quei giovani che da ore stanno rendendogli omaggio, trasformando gli Apple Store di tutto il mondo in moderni e tecnologici mausolei.


E in un blog che vuole parlare - tra le altre cose - di società, non posso non rendere omaggio ad un uomo che quella società ha contribuito a trasformarla.

Che ci ha aiutato ad esprimerci meglio, a potenziare le nostre capacità.

Non solo perché scrivo da un Mac, dal quale non mi separo tutto il giorno tanto è immediato e piacevole da usare.
Non solo perché telefono da un iPhone.
Non solo perché ascolto musica da un iPod.

Ma perché credo nel potenziale di uomini come Steve Jobs.

Capaci, ebbene sì, di sognare.

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Guardate il video del discorso di Stanford del 2005
Guardate come lo ricorda il New York Times

mercoledì 5 ottobre 2011

Niente Euro, siamo Inglesi


























Tornata di recente da Londra, dal mio portafoglio vedo ancora spuntare – in varie e gradevoli nuances, dal viola al giallo senape – il volto di Her Majesty The Queen che – assieme a Charles Darwin e Adam Smith – campeggia su pounds di varie pezzature, prodotto esclusivo della Bank of England. Già, la sterlina... L’Europa è unita – almeno ci prova – e possiede (ancora per quanto?) una moneta unica. La Gran Bretagna è sì in Europa, ma dell’Euro non ne ha mai voluto sapere. E non ne vuole sapere. Non è l’unica, del resto: dei 27 paesi dell’Unione, l’Euro è la valuta ufficiale di 17 stati.
Ma perché il Regno Unito si è da sempre tenuto fuori dalla moneta unica? La storia inizia da lontano. Già dai tempi dello Sme (1979), il Sistema monetario europeo – embrione della politica monetaria comune, una sorta di banda di fluttuazione per legare tra loro le valute europee – il Regno Unito si tenne prudentemente fuori dal gioco. La moneta? Simbolo e sede di troppa sovranità per poter essere ceduta ad un’Europa in costruzione. Ameno così ragionava una recalcitrante ed (euro)scettica Gran Bretagna, che alla partnership con i cugini d’oltremanica ha sempre preferito la storica relazione con i paesi del Commonwealth.
Dopo timidi tentativi – durante l’epoca di un possibilista Tony Blair si pensò addirittura ad un referendum popolare per entrare nell’Euro, idea che ha poi finito per impantanarsi miseramente nelle secche del più generale fallimento del trattato costituzionale – gli inglesi non si sono mai decisi. E oggi – a fronte di incertezze e timori non più solo fantascientifici di break-up – i nemici dell’Euro hanno gioco facile nel ripetere qua e là il leitmotiv “noi l’avevamo detto”.
Se quindi nella Queen’s Land cala (e di molto) la fiducia nella comune casa europea (alcuni chiedono addirittura un referendum per uscire dall’Unione), ciò che sale – alle stelle – è l’insofferenza dei settori più euroscettici del governo, tanto che un disinibito William Hague, Ministro degli Esteri, ha definito l’Euro – riporta The Spectator –“un palazzo in fiamme senza uscite”.
Timorosi di essere travolti nella crisi (l’Europa è pur sempre il loro maggiore mercato), gli inglesi  stanno correndo ai ripari. Come? Predisponendo un piano d’emergenza, per attrezzarsi (sul piano del mercato e dei servizi finanziari) qualora le cose in Eurolandia dovessero precipitare.
Come si suol dire, la prudenza non è mai troppa.....

sabato 1 ottobre 2011

Ue: cercasi urgentemente un leader! intervista a Marc Lazar

Docente di storia alla prestigiosa SciencesPo di Parigi, politologo, visiting professor e ora Presidente della School of Government all’Università Luiss, Marc Lazar è – soprattutto – uno dei più acuti osservatori dei vizi e delle virtù della nostra cara vecchia Europa.
Professore, com’è l’Europa di oggi?
Capace di fare molte cose: e, per questo, un progetto sul quale investire. Meriti e capacità, però, hanno bisogno di essere dimostrati in concreto, altrimenti l’Ue rimarrà distante e incompresa, scarsamente convincente per l’opinione pubblica. Quello attuale, comunque, è un momento di grande incertezza, soprattutto in termini di distribuzione del potere.
In che senso?
È venuto meno il “motore franco- tedesco”, da sempre molto importante nell’evoluzione dell’integrazione europea.
Il tandem Parigi-Berlino non riesce più a spingere in avanti l’Europa?
Berlino punta soprattutto a giocare le proprie carte nell’Europa centro-orientale e in Russia, trascurando il rapporto con la vicina Francia. Parigi, invece, non ha ben definito le proprie priorità europee: spera ancora in un’Europa politicamente francocentrica oggi impossibile. In un’Unione allargata non può più pensare di detenere la leadership politica. E’ finita l’epoca della tradizionale ripartizione (potere economico alla Germania, potere politico alla Francia). Nell’Europa a 27, occorre ridefinire nuovi assetti di potere.
Il Trattato di Lisbona introduce qualcosa di nuovo in questa direzione?
Per lo meno sulla carta, esistono disposizioni che, se ben utilizzate, potranno rafforzare l’Europa. Ma sopravvivono i soliti “difetti europei” che rendono la strada da percorrere ancora lunga. In particolare, rimane un’esasperata e pesante ingegneria istituzionale che rende il congegno dell’Unione eccessivamente macchinoso.
Sul fallimento del Trattato costituzionale ha inciso pesantemente l’esito del referendum in Francia nel 2005, che ha irrimediabilmente bloccato la Costituzione. Da cittadino francese come ha vissuto quel momento?
Personalmente ho creduto a questo progetto e ho votato a favore del Trattato. Ma l’esito negativo della consultazione francese e olandese ha avuto davvero un effetto letale sull’idea di Costituzione europea.
Si parla spesso di euroscetticismo. Questa disaffezione, secondo lei, dipende da un difetto strutturale di un’Unione Europea troppo complessa e poco democratica oppure incidono anche le difficoltà congiunturali di un periodo di crisi indiscutibilmente difficile?
Entrambe le cose: l’elenco che lei ha fatto coglie esattamente tutti i punti critici della fase attuale. Sicuramente oggi non c’è ostilità diffusa nei confronti dell’Europa: la cornice europea è stata oramai assimilata, per lo meno nella maggior parte dei Paesi. La gente “si è abituata” all’Europa. Ma ci sono anche forti dubbi, alimentati da una percezione spesso distorta dell’operato dell’Unione. Ci si interroga sul futuro. Si dubita sulla possibilità di costruire un’Europa sociale. E spesso non ci si rende conto dei meriti dell’Ue.
Questa diffidenza verso il potere riguarda solo l’Europa?
No. In realtà si inserisce in un malessere democratico diffuso, generale. Me ne rendo conto in particolare oggi, in qualità di Presidente della School of Government: le società odierne hanno forte tendenza a rigettare, a volte odiare, le elite. Nel caso dell’Europa, a ciò si aggiunge la convinzione che questa allontani il potere e renda ancora più oscura la gestione della politica.
Un forte sentimento di antipolitica, dunque?
Sì, non solo a livello nazionale ma anche sul piano europeo. Per questo bisogna dare risposte chiare e concrete alla gente.
Un rimedio?
Allargare il bacino di reclutamento delle elite, in modo che queste riflettano le diverse componenti sociali ed etniche delle nostre società. Porre fine alla loro autoriproduzione.
Come colloca l’Unione europea nell’attuale contesto internazionale?
Innanzitutto oggi, grazie ad Obama, c’è un grande ritorno dell’America. Ma ci sono anche Paesi emergenti, giovani e dinamici, che “ci sfidano” su più piani: pensiamo a Cina, India, Brasile, Turchia. Di fronte a questo mutato contesto geopolitico internazionale, per evitare di perdere terreno l’Europa deve attrezzarsi.
Si riaffaccia l’immagine di una vecchia Europa decadente?
In parte sì, abbiamo la tendenza pessimistica a dipingerci come vecchia gloria in declino. Ma è pur vero che bisognerebbe trovare qualcosa o qualcuno in grado di ridare spinta propulsiva al processo di integrazione.
Quindi un leader?
Certamente. Manca quello che è un elemento chiave: la narrativa. In altre parole, serve qualcuno che racconti ai cittadini un progetto, un obiettivo... Occorre un leader che abbia la capacità di incarnare e rappresentare qualcosa per “animare” gli europei.
Ma ciò è reso difficile dal fatto che in Europa manca uno spazio civico davvero comune e una popolazione davvero unita da mobilitare...
Questo è vero, l’Europa è un “oggetto politico non identificato” ed è un sistema totalmente originale. Ma il cantiere merita di essere avviato.
Come bisogna lavorare in questo cantiere?
Cercando di coinvolgere i cittadini, di trovare un contenuto e di avviare un processo di identificazione. Insomma, ridare “gusto” all’Europa