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lunedì 16 maggio 2016

Campagna contro l'uso dell'etichetta "gufi" in politica


Capita di questi tempi, in politica, di vedere affibbiata sempre più spesso l'etichetta di "gufi" a coloro che esprimono valutazioni critiche con riferimento alle scelte degli amministratori pubblici.
Ora, posto che disfattismo e scetticismo esercitati in maniera fine a se stessa non sono mai auspicabili, di questa renzianissima retorica del gufo non se ne può francamente più.
E per varie ragioni.

Anzitutto perché non è accettabile che il dibattito pubblico e la (sacrosanta) messa in discussione delle scelte della politica vengano delegittimati con simile superficialità: in democrazia è bello, oltre che opportuno, rispettare la dialettica e l'espressione delle opinioni. Anzi, il (vero) politico, colui che ha veramente a cuore la polis, dovrebbe rallegrarsene: si tratta di sintomi di un tessuto sociale vivo, capace di elaborare idee ed esercitare spirito critico.
Oppure la politica - e rischia di essere una domanda retorica - si nutre solo del consenso informe, dell'apatia dei cittadini, in letargo perenne una volta esercitata la delega attraverso l'urna (evenienza, questa, sempre più rara)?

Ma non se ne può più anche perché la "retorica del gufo" viene utilizzata in politica ma esula dalla politica: non è, infatti, politicamente maturo annientare opinioni difformi o addirittura (lesa maesta!) opposte attraverso argomentazioni che non riguardano il merito delle scelte e dell'agire pubblico, ma che richiamano ad altre categorie, di natura morale e comportamentale.
In altri termini: "a te, gufo, neanche rispondo nel merito, perché sei ontologicamente pessimista, disgraziato e iellato e, in quanto tale, non meriti nulla".

Insomma, la sparata renziana dei "gufi e rosiconi", che risale oramai a svariato tempo fa, sembra essere stata assimilata nel linguaggio politico, degli amministratori pubblici e - ahinoi - anche dei media. Retorica spicciola, in grado di imperversare a destra come a sinistra, sia a livello nazionale che locale, impoverendo terribilmente il dialogo sulla cosa pubblica.



martedì 18 febbraio 2014

Il teatro della politica



«Da uomini di teatro sappiamo che una personalità come quella di Renzi gioca tutto sulla velocità, sull'incantamento, sulla prestigiazione. 
Quindi bisogna essere veloci affinché l'incantamento non termini». 

Con queste parole ha catturato la mia attenzione, Ruggero Cappuccio, regista e attore teatrale, ospite ieri sera a Linea Notte, edizione notturna del Tg3. 
Si parla, ça va sans dire, di Matteo Renzi, come non può essere altrimenti, nel giorno del conferimento dell'incarico di governo. 
E immaginifico come solo può esserlo chi produce arte, Cappuccio descrive la politica dei nostri tempi con una metafora, suggestiva e calzante: 
«Gli italiani hanno la netta sensazione che Camera e Senato siano diventati una sorta di Hotel Excelsior: se vincete voi, le suites a voi e le camere a noi, se vinciamo noi le suites a noi le camere a voi. L'importante è che nessuno esca dall'albergo. E se a qualcuno, di notte, occorre una bottiglia di Dom Pérignon, basta bussare e ve la allunghiamo». 
Questa, secondo Cappuccio, è una sensazione diffusa.  
«Quando si arriva sull'orlo del baratro, però, non c'è che essere ottimisti», aggiunge. «Guardiamo con ottimismo alla prestigiazione».
Ma a far riflettere è soprattutto il passaggio in cui Cappuccio propone un parallelismo tra teatro e politica. 
«Le regole del teatro, negli ultimi venti anni, impallidiscono al cospetto delle regole della politica. I teatranti recitano con la complicità del pubblico. 
Il pubblico sa che in quel momento sta guardando una rappresentazione. 
La politica pretende di fare del teatro con delle regole di finzione che tendono fondamentalmente a raggirare l'ascoltatore.  
Mentre la finzione della politica è marketing, la finzione del teatro è arte». 

Renzi, dunque, sarebbe artificio? 
Non proprio. O meglio, non lui solo. 
«È evidente che oggi ogni politico - in particolare un politico giovane, rapido, rampante, che ha capito che bisogna battere tutto e tutti sulla velocità - deve necessariamente rapportarsi con quelle che sono le percezioni del pubblico
Rapportarsi alle percezioni significa arrivare con una Smart in una certa strada, presentarsi ad un appuntamento con una giacca, presentarsi senza giacca ad un altro appuntamento, scegliere tra il colletto di camicia e la cravatta».  
«Non dico che non esistano degli spontanei in questo tipo di mondo, in questo tipo di fauna, ma è evidente che molti sono costretti a studiare questo tipo di atteggiamento.  
D'altra parte lo studio cominciò già trenta o quaranta anni fa: c'era Almirante che abbottonava la giacca prima di ogni comizio, mentre Berlinguer sapeva scegliere molto bene le pause. Un altro grande pausista amletico fu Craxi».  
Ma è centrale la differenza tra quell'epoca e quella odierna: 
«Quel tipo di uomini, però, tendeva fondamentalmente a fare un lavoro sulla retorica del discorso, nel porgere, la generazione politica di oggi tende a fare un lavoro sulla retorica dell'apparire, nel porsi».
«E in tutta questa rapidità - conclude Cappuccio - i messaggi che vengono inviati spesso vengono da noi ricordati nel come sono stati inviati, ma i contenuti sono il più delle volte obliati, dimenticati. 
E questo è abbastanza preoccupante»

Nel mare magnum di commenti di più o meno sedicenti esperti, opinionisti, osservatori e provincialissimi maître à penser, la voce di un outsider della politica, di un autore teatrale, è la migliore, la più mirata alla sostanza della delicata fase che stiamo atrraversando. 
Che non è solo questione di incarichi di governo, ministeri e congegni istituzionali, ma è un dato culturale e sociale, che ha a che fare con i nostri usi e i nostri costumi. 
Contenuto e forma. Dove finisce l'uno e dove inizia l'altra? Quanto la logica dell'apparire depaupera di senso ciò che si comunica? Fino a che punto è giustificato fingere per alimentare la macchina del consenso?
Finzione e artificio sono sempre esistiti, con la differenza che prima stavano nella retorica, in quel complesso di contenuti che fornivano un orizzonte culturale e valoriale. 
Oggi, invece, stanno nella costruzione della personalità, di un ego capace di produrre approvazione. 
Non resta che rifletterci su. 


mercoledì 19 giugno 2013

Beppe, le epurazioni e la democrazia (evaporata)



















«La senatrice Adele Gambaro ha rilasciato dichiarazioni lesive per il M5S senza nessun coordinamento con i gruppi parlamentari e danneggiando l'immagine del M5S con valutazioni del tutto personali e non corrispondenti al vero»
Con queste affermazioni apre il post nella homepage del blog di Beppe Grillo dedicato all’affaire Gambaro. Affermazioni che contengono anzitutto una macroscopica “non-verità”. La senatrice, esposta ora al pubblico ludibrio, infatti, non ha rilasciato dichiarazioni lesive sul (e per il) M5S, ma su Beppe Grillo e, segnatamente, sui toni da questi adottati, definiti «minacciosi». E su esplicita domanda del cronista di Sky – «secondo lei in questo momento il problema del movimento è Beppe Grillo?» – risponde: «Sì, noi lavoriamo tantissimo e questo non viene percepito all’esterno», difendendo, evidentemente, il lavoro dei deputati-cittadini eletti nelle liste pentastellate.
Quindi, nessuna dichiarazione a danno del Movimento in quanto tale.
A meno che non si assuma – come sembra fare il comico genovese – che esista una totale coincidenza, una piena sovrapposizione, tra il M5S e il suo capo.
In questo senso, dunque, il Movimento di Grillo altro non sarebbe che l’ennesimo Partito-Persona (movimento-persona, a voler essere precisi), di cui è tanto ricca la storia del nostro paese, quel genere tanto in voga nell’Italia dei leader, dei leaderini e dei semi-leader.
Secondo questo modello nacque, ad esempio, la Lega Nord – imperniata attorno alla folkloristica figura di Umberto Bossi, lo stesso di cui oggi una parte del partito (sbiadito più che mai) chiede l’espulsione. E poi (e soprattutto) la fu Forza Italia, successivamente metamorfizzata nel Popolo delle Libertà, che secondo Norberto Bobbio fu il “primo partito personale di massa”. «Chi ha scelto Forza Italia – spiegava Bobbio – non ha scelto un programma, ha scelto una persona». E questo a voler circoscrivere il discorso nel perimetro della Seconda Repubblica, perché altrimenti la storia degli individui pericolosamente ed immeritatamente riconosciuti quali portatori di carisma, investirebbe certi altri periodi non propriamente felici per la storia del paese.
I partiti-persona,  insomma, sempre meno “cinghie di trasmissione” e sempre più semplici aggregati elettorali forti solo dei propri condottieri, loro, sì, in grado di scuotere, ammaliare ed affascinare i cittadini. In questi casi, non è il partito che crea il leader, ma è il leader a creare il partito. Partito che – è evidente – non può che essergli fedele e riconoscente fino alla fine, pena la sua stessa dissoluzione.
In questa cornice, la dissidenza e l’offesa diretta al vertice non hanno spazio, né cittadinanza. A reprimerli, il ruolo dominante e prioritario del capo – padre padrone, dominus infallibile – e la pratica delle epurazioni' da lui stesso pilotate.
«Per mezzo di tali epurazioni – si legge alla voce “totalitarismo” nell’enciclopedia Treccani – viene edificata, consolidata e tutelata la posizione monopolistica del capo, che è insieme espressione e fulcro del totalitarismo». «Sono i capi totalitari – si legge ancora – a costituire l'autentico nucleo del sistema di dominio».
La democrazia? Evaporata. Inevitabilmente evaporata, dal momento che quello democratico è il luogo del confronto, del dibattito e della deliberazione, dove tesi e antitesi si fanno sintesi proprio grazie alla critica. 
Che il M5S costituisca un piccolo sistema autoritario, un microclima in cui l’apice mette a tacere la base pensante?
Già perché i fatti più recenti ci rimandano sempre più l’immagine di un sistema in cui l’arbitrio e le decisioni di uno prevalgono sulla libertà e le parole di altri. Con l’astuzia di dare alla manovra di epurazione del malcapitato (o della malcapitata) di turno, una grossolana “rabberciatura” democratica, attraverso il voto – misterioso, inafferrabile e acriticamente plebiscitario – della rete. 

giovedì 21 febbraio 2013

Viva la libertà. E la politica.

Toni Servillo, nel doppio ruolo di Enrico Olivieri e di Giovanni Ernani in Viva la libertà di Roberto Andò
«Ciao Andrea. Stammi bene». È così che Enrico Olivieri – Segretario del principale partito della sinistra italiana  – si accomiata dal suo assistente Andrea Bottini, una sera come tante, dopo l’ennesima sconfitta. E decide di fuggire, l’indomani stesso, a Parigi. Via. Via dagli insuccessi, dai sondaggi in ribasso, dalle contestazioni all’assemblea nazionale. Dalle agenzie e dai titoli dei giornali che lo fanno a pezzi. Dai colleghi che lo guardano con commiserazione, pronti a fargli lo sgambetto. Via, verso la Francia, patria della libertè e di un vecchio amore, che poi tanto vecchio non è. Danielle, segretaria di edizione nel cinema, fiamma mai spenta di venticinque anni prima che lo accoglie in casa (con marito e figlia). E mentre lui comincia a (ri)trovare se stesso, a Roma è il caos: l’opposizione non può permettersi di stare senza leadership, in un momento che è – come sempre – di emergenza, condizione oramai cronicizzata della nostra democrazia. Messi alle strette, Bottini ed Anna, la moglie di Oliveri, trovano una soluzione che oltre a liberarli dall’imbarazzo di dover giustificare l’assenza del leader (dove è finito? Si chiedono tutti), risolleverà le sorti del partito e di tutta la sinistra. Far vestire a Giovanni Ernani – il fratello colto e un po’ folle di Olivieri, in cura per una depressione bipolare – i panni del Segretario. La somiglianza fisica c’è. Quello che cambiano, e non poco, sono dialettica e comportamenti. Alta, affilata e tagliente, la prima, improbabili e sopra le righe, i secondi. La politica riprende vita, i discorsi riacquistano colore, le piazze tornano a riempirsi. Al grigiore della vecchia politica, burocratica e stanca, appiattita e avvitata su se stessa, si sostituisce la potente sferzata ideale di quest’uomo, colto e disinibito, profondo e ironico. Che sa ridare gusto alla politica e al suo verbo. Che cita Brecht senza banalità e retorica. Ma quello che più colpisce è la doppia dimensione della pellicola di Roberto Andò. Da una parte, una riflessione sulla politica e, soprattutto, sulla sinistra, colpevole di aver perso per strada quella che era la sua vocazione originaria: parlare ai cittadini, connettersi ad essi con empatia e tensione ideale. Dall’altra, c’è l’universo individuale in cui ognuno di noi è calato. Con i suoi limiti e le sue opportunità, con le sue ansie e le sue gioie. Con le sue insicurezze e con i suoi assi nella manica. I due fratelli – apparentemente così diversi – non lo sono poi così tanto. L’inversione dei ruoli finisce con l’essere più che altro un riavvicinamento, e il rinnovato Olivieri che torna alla sua scrivania spiazza, perché non si sa più, esattamente, chi si ha di fronte. Collettivo ed individuale, insomma, s’intrecciano come non mai, non si sa bene dove inizi l’uno e dove finisca l’altro, così come s’intrecciano “normalità” e follia, due facce della stessa medaglia. Perché, in fondo, in tutti noi c’è un po’ di Olivieri e un po’di Ernani. Solo che, spesso, non lo sappiamo. O facciamo finta di non saperlo. 

lunedì 10 dicembre 2012

Per rinfrescarci la memoria


Ieri sera Berlusconi – dopo la riunione con i vertici del Pdl – è andato a cena con quelle che pare oggi siano le sue fedelissime, nonché nuove consigliere politiche. Ecco chi sono: Francesca Pascale, nel 2009 eletta nel consiglio provinciale di Napoli con oltre 7 mila preferenze, dimessasi a giugno. E Maria Rosaria Rossi, deputata Pdl.

Ecco dei video. Per capire nelle mani di chi non finiremo. 
Non finiremo, già, perché non vedo chi possa dare il proprio consenso e il proprio voto a questo schifo.

giovedì 18 ottobre 2012

I sogni son desideri


Alla domanda “Che cosa sognava di fare da grande?”, risponde: "Il pilota di Formula uno o il collaudatore di vacanze: andare in giro in posti bellissmi ed essere pagato per questo". A parlare è niente meno che Roberto Formigoni, intevistato su Sette del Corriere della Sera del – udite, udite! – febbraio 1997.

In pochi, non c’è che dire, riescono a raggiungere i propri sogni.

lunedì 15 ottobre 2012

Ci mancava questa




"La politica è attraente e piacevole, ma vista da fuori". Flavio Briatore smentisce – buon per noi – il suo possibile coinvolgimento nell’agone politico. Sulle pagine de 'La Stampa' era infatti apparsa la (temibile) notizia di un progetto di Silvio Berlusconi per una lista civica di imprenditori, con a capo proprio Briatore.

"Non farò mai politica, non mi interessa – ha tagliato corto l'ex manager di Formula 1, protagonista del reality 'The apprentice' in onda su Sky – però penso che tutti possano avere opinioni e parlarne. La politica dovrebbe essere fatta da gente che ha la passione ed i politici dovrebbero essere quelli che ti fanno vincere i mondiali, ma adesso non mi sembra sia così". 

Ipse dixit. 

martedì 9 ottobre 2012

Renzi, c’è chi dice no



Mi aspettavo Renzi fosse un imbonitore. Sapevo, avendolo visto tante volte in tv, dei suoi toni a forti tinte populistiche. Avevo letto dei suoi one man show. Ma la realtà, come spesso accade, è andata oltre le aspettative. Ed è così che mi sono ritrovata immersa in una specie di avanspettacolo. Niente contro la persona, s’intenda. Ognuno ha il diritto di proporre la propria ricetta per il futuro dell’Italia. Ma il dato, qui, è politico. E di questo si può, anzi, si deve discutere. Ma tutto fuorché discussione c’era in quel teatro gremito di persone, per le quali la c aspirata di Renzi fungeva da elemento consolatore, mero sfogo per quel malcontento covato per molto tempo. Ma oltre a ciò, poco. Non che tutte le proposte di Renzi, si badi, siano errate. Chi sarebbe contrario al rinnovamento, alla volontà di ricambiare una classe dirigente da troppo tempo inamovibile? Chi non vorrebbe, ancora, la modernizzazione del paese? Ma l’incontro – dal forte sapore di marketing e artificio – è un format ripetuto secondo copione in lungo ed in largo per l’Italia. Mai una specificità, mai un riferimento alle problematiche di un territorio. E, quel che è peggio, la totale assenza di ogni forma di dibattito. Bordate anticasta, strizzate d’occhio ai bisogni (sacrosanti) della gente, intervallati con video ruffiani tratti dal (per altro bellissimo) “Non ci resta che piangere”, dalle imitazioni di Crozza e, per parlare di finanza, dalle gag di Cettola Qualunque. Basta così poco agli italiani? E la visione politica? Si strizza l’occhio di qua e di là, per arraffare più voti possibile. E la coerenza?
Ci risiamo, poi, con il temibilissimo mito dell’uomo della provvidenza, ennesimo demiurgo che “scende in campo” a salvare i destini di questo martoriato paese. Ancora una volta – come se dall’esperienza non fosse possibile imparare – gli italiani si infatuano di un personaggio, più che di una persona. Di un vocabolario, più che delle idee. Di un modo di fare, più che delle competenze.
E’ la “sempiterna figura della missione redentrice di un salvatore” scriveva Zagrebelsky nel 2010 (non su Renzi, ben inteso) a proposito della attitudine tutta italiana ad affidarsi al “lui” di turno. Il Lui sul quale riporre tutta la fiducia, senza andare troppo per il sottile. Senza accertarsi delle competenze, senza richiedere certe preziose caratteristiche. E dopo Grillo, il comico che fa politica, abbiamo il politico – fino a prova contraria Renzi è il sindaco di Firenze – che fa il comico, che rende i suoi comizi spettacoli di cabaret. Spettacoli che si concludono con l’immancabile metafora calcistica.

Che, ahinoi, ricorda tanto qualcuno...

Ps: chi scrive, come non si riconosce in Renzi, non si riconosce, sottolineato più volte il non, nella nomenclatura “tradizionale” del PD. Quello che è stato scritto è una semplice disamina di uno stile politico. Per la totale chiarezza: sostengo Sandro Gozi. 

venerdì 27 aprile 2012

Democrazia, media e potere nell’era della conoscenza



Il titolo è impegnativo, e non poco. «È un tema infinito – spiega Stefano Rodotà, intervenuto con una preziosissima lectio al Festival Internazionale del giornalismo di Perugia 2012. «Ma va trattato, sia pure per generalizzazioni – avverte, il Professore, giurista di fama internazionale – per capire, in fondo, quale è il futuro che ci sta davanti». Tanti, infatti, gli interrogativi. La democrazia è salvata o invasa dalla tecnologia? I nuovi media nutrono o uccidono la libertà?
Perché, sullo sfondo, c’è sempre l’idea della democrazia diretta, «quasi un mito fondativo che affonda le sue origini nella antica Grecia». È Atene, infatti, che – per quanto incompiuta (le donne e gli apolidi non erano previsti nell’agorà) – offre l’immagine, oltre che la prima sperimentazione, di quella democrazia in cui ciascuno può parlare, sentire e farsi sentire.
E oggi, esiste una piazza virtuale? Secondo Rodotà sì. E, aggiunge, «non è detto che sia in competizione con quella reale». Nel 1999, agli albori del movimento no-global, manifestanti provenienti da tutto il mondo si riunirono a Seattle, in occasione della conferenza della World Trade Organization. Dove si erano conosciuti, organizzati? Nella piazza della rete. Dove si ritrovavano? Nella piazza fisica della città statunitense. «È la prova che la vecchia piazza convive con quella nuova, come dimostrano – più recentemente – le Primavere Arabe».
E i media tradizionali? Continuano ad avere un loro peso, spiega il Professore. Sempre nel ’99 la notizia delle proteste venne diffusa dai media tradizionali. Ma anche il caso Wikileaks – grazie al quale i cittadini del mondo si sono appropriati degli arcana imperii – lo dimostra: «Assange non ha messo in rete i dati di cui disponeva, ma li ha forniti ai grandi giornali americani ed europei. Questo perché non c’è solo discontinuità, ma anche continuità tra le tecnologie di prima e quelle successive».
Il Festival Internazionale del Giornalismo
di Perugia 
Ma quella di Rodotà non è una visione (solo) romantica della rete e del web. Esitono punti oscuri, come, in primis,  la selezione del materiale e la verifica della notizia, resa più difficile nel mare magnum del web. «La stampa tradizionale era depositaria del controllo della notizia. Oggi prima arriva la notizia e poi c’è la verifica. Che non può non esserci». E poi, il controllo (sia quello pubblico, cioè di sicurezza, che quello privato, ossia di mercato), oggi reso possibile in una forma più che mai capillare. 

La prospettiva allora è forse quella di «un “Orwell ad Atene”, ad indicarci che la grande utopia della democrazia diretta e la distopia della sorveglianza globale, in qualche modo, già oggi convivono». 

mercoledì 18 aprile 2012

Agende



Dalle prime pagine di oggi, perfetta fotografia di un paese stretto tra l'emergenza della crisi e il ciclone dell'antipolitica.

giovedì 8 marzo 2012

Questione morale. In salsa padana.


Marzo 1993: Luca Leoni Orsenigo, deputato Lega Nord, sventola nell’aula di Montecitorio un cappio, nell’esplicito riferimento alla necessità di fare pulizia di una classe politica corrotta

«La lega avanzerà, baionette in canna, paese per paese, villaggio per villaggio, per sfidare la partitocrazia», sbraita un Sentur urlante dal palco di Pontida. Siamo nel lontano 1995 e la Lega nord – formazione territoriale per eccellenza – è, eccome, un partito di lotta, imbevuto di antipolitica. Poche le parole d’ordine, riconoscibili e convincenti quanto velleitarie e demagogiche: populismo, autonomismo ed etnoregionalismo. Il tutto condito con una buona dose di intolleranza sociale. Ma tant’è. 

Ed è proprio sulla crisi dei partiti che il “Carroccio prima maniera” costruirà le sue fortune: onesti contro corrotti, lavoratori contro fannulloni della politica e delle istituzioni, gente del nord contro “terùn”, precedendo gli Stella e i Rizzo nel denunciare i privilegi della Casta. Prima di decidere di goderne. Di nascosto, ovvio.

Già perché la Lega non ha esitato ad entrare – più volte – nelle tanto disprezzate stanze dei bottoni di “Roma ladrona”, fino ad occupare poltrone importanti. «La dittatura partitocratrica», ad un certo punto, non fa più ribrezzo e si vola alla conquista delle istituzioni, nazionali e locali. Fatti due conti, in fondo, conviene.

Ed oggi che Davide Boni – presidente del già martoriato Consiglio regionale lombardo – è indagato per corruzione (sì, proprio lui che cavalcò, in perfetto stile leghista, la cosiddetta "questione morale”), il doppio volto della Lega è più evidente che mai.

E se le accuse saranno provate, non si tratta di una marachella individuale, di un singolo che – sbagliando, sia chiaro – si fa tentare dal luccichio dei facili denari. Qui è in gioco proprio il reato che caratterizza la peggiore partitocrazia, quella in cui la corruzione è fatta sistema. E tangenti e mazzette sembrano essere modalità ordinarie di gestione della cosa pubblica. 




Leggi anche:

Dr. Jekyll e Mr. Hyde
Le ragioni della cultura

giovedì 23 febbraio 2012

È il denaro, bellezza

Marinus van Reymerswaele, Il cambiavalute e sua moglie, 1540
Per anni gli italiani si sono nutriti del mito del self made man equivocamente (e immeritatamente) incarnato da Berlusconi.
Per anni hanno incensato l’imprenditore-politico, benevolmente invidiandone le ricchezze e trascurando i modi poco limpidi attraverso cui, in buona parte, se le era procurate.
Per anni hanno visto in lui l’incarnazione di quello che avrebbero voluto essere, l’idea immaginaria e idealtipica di se stessi, il desiderio recondito, il sogno nel cassetto.

E oggi?

Oggi tutti a prendersela con i ministri del Governo Monti (ottimo come sempre il Buongiorno di Gramellini su La Stampa), che – sfidando anni ed anni di opacità e di sommerso – hanno coraggiosamente infranto la tradizione pubblicando i dati relativi ai loro redditi e alle loro proprietà.

Ci saremmo attesi se non un coro di applausi, almeno un cenno di benevolenza e di approvazione per una simile operazione trasparenza.

E, invece, un coro si è levato, ma un coro di scomposte reazioni, infarcite di luoghi comuni e di demagogia, dove la ricchezza – che fino a prova contraria queste persone si sono meritate – viene additata e messa alla gogna, con un’ostinazione degna dei peggiori strali mediovali. La pecunia – improvvisamente – è maledetta e sospetta, mentre stranamente non lo era nell’era dei Berluscones.

Insomma, si condanna quando non c’è da condannare e non si condanna quando c’è da condannare.

Viene da chiedersi ... ma che strano paese è questo?

lunedì 16 gennaio 2012

Giuliano Ferrara e il Berlusconi redivivo

Giuliano Ferrara

“Ecco che Berlusconi qualcosa potrebbe fare. Non la minaccia di staccare la spina, ma far correre una ventata di energia politica nuova, decisiva, necessaria. Dare un orizzonte alla politica democratica. Parlare, dire la verità. Impegnarsi per un patto di riforma serio del sistema, sollecitarlo, e costruire un orizzonte credibile e responsabile per la ripresa e il rilancio della democrazia offuscata”.
A scrivere è Giuliano Ferrara, nell’editoriale de il Giornale del 15 gennaio. Dopo aver passato in rassegna – in un personalissimo elenco –  le difficoltà di questo inizio 2012 (i partiti – in primis Lega e Italia dei Valori – in crisi; lo spread alle stelle nonostante Monti; il governo dei tecnici, malefica “negazione del voto e, quindi, della politica”), Ferrara si lancia in un deciso quanto goffo, surreale e naïf endorsement di quella figura politica che, provvidenzialmente, potrebbe salvarci da tutte le sventure di questo mondo: niente meno che Silvio Berlusconi.
Ora, si può anche essere stati berlusconiani (nessuno è perfetto), si può anche rimpiangere, con interessata nostalgia, i fasti e i privilegi elargiti un tempo della corte e di cui si è beneficiato. Ma dire che oggi, anno domini 2012, Berlusconi possa portare “una ventata di energia politica nuova” è contrario ad ogni forma di buon senso politico.
La figura retorica dell’ossimoro deve piacere non poco all’amico Ferrara, che – in pochissime righe – ne fa ampio uso. Già perché Berlusconi non fa rima ne con “novità”, né tanto meno con “verità”, per non parlare della dubbia compatibilità con “serio”, “credibile” e “responsabile”.
Non pago, l’intrepido continua: “Berlusconi potrebbe fare del 2013 una scadenza felice, un’opportunità, potrebbe diventare il padre nobile della Repubblica a venire, e un coautore decisivo della salvezza nazionale e di una Europa della quale si possa pensare che non esiste solo per una astratta e punitiva disciplina fiscale”.
Padre nobile della Repubblica? Coautore di salvezza nazionale? Più che un fondo sembra una mal riuscita boutade. Per dare una parvenza logica al discorso, Ferrara ci spiega la ratio (se c’è una ratio) del suo ragionamento: “In poche parole. La destra liberale italiana incarnata per tanti anni dall’anomalo leader Berlusconi potrebbe diventare una destra di governo per il futuro. Grazie a lui stesso, all’anomalo leader che ha compiuto e sancito la parabola della sua anomalia andandosene e lasciando il passo al governo tecnico”.
In altri termini, secondo il giornalista, Berlusconi si sarebbe rifatto una verginità (il doppio senso non era voluto, è venuto così) con le dimissioni, atto purificatore in grado di ridare nuovo smalto al consumato leader, passando magicamente un colpo di spugna su anni di conflitto di interessi, di leggi ad personam, di scandali, di gaffes internazionali, di bugie e di irresponsabilità.

Alle bizzarrie della fantapolitica, a quanto pare, non c’è limite. 





domenica 13 novembre 2011

Come neve al sole

Sciogliersi come neve al sole, Alighiero Boetti, arazzo, 1988






































Si ha un partito personale quando «non è l’associazione che ha creato un capo, ma è un capo che ha creato l’associazione».
Questa frase – scritta (anzi, pronunciata, dal momento che è una conversazione) da Norberto Bobbio in un bellissimo libro, vero condensato di etica civile – mi è tornata potentemente alla memoria osservando il caos che in questi giorni si è impossessato del Popolo delle libertà ora che il suo leader, fondatore e padrone (?) si avvia a lasciare la scena. 
Il libro in questione è Dialogo intorno alla Repubblica – che ho letto oramai dieci anni or sono – e raccoglie le intense conversazioni avvenute tra due studiosi diversi per età e formazione ma uniti da una profonda (quanto rara, soprattutto oggi) passione civile: Norberto Bobbio, uno tra i più importanti pensatori contemporanei (grande il vuoto che ha lasciato) e Maurizio Viroli, italianissima gloria in un’università americana (insegna storia del pensiero politico a Princeton).
Tra i grandi temi politici di cui discutono – diritti e doveri, libertà, corruzione e amore per la patria (ma «non abbiamo verità definitive da proporre», si legge nella prefazione) – c’è un capitolo, “La Repubblica e suoi mali”, in cui – e del riferimento all’allora Forza Italia non è fatto mistero – Bobbio e Viroli si interrogano sulle storture del cosiddetto partito-persona.
Il partito è personale quando vive per e in virtù del leader fondatore, quando è “cosa sua”, si identifica e si sovrappone con la sua immagine e la sua ideologia. Trattasi, in altri termini, di una formazione politica fondata sulla lealtà incondizionata al capo. E in questi quasi venti anni, Berlusconi ha fatto di tutto per accentuare il carattere personalistico del suo “prodotto” politico. Questo, se ci pensate, trova riscontro nei simboli stessi di Forza Italia, prima, e del Pdl, poi: l’immagine (sorridente) e il nome (a caratteri cubitali) di Silvio Berlusconi hanno fatto tutt’uno con il partito, sono serviti ad identificarlo e a dargli sostanza, come pure i grotteschi slogan sul modello di “meno male che Silvio c’è”. E se qualcuno prova a fare la differenza, be’, l’ostracismo è l’unica soluzione (caso Fini docet).
Insomma, il partito-persona è cosa ben diversa dalla personalizzazione della politica, fisiologica soprattutto nella modernità, quella che si ha – ad esempio – in presenza di un leader carismatico e la minaccia più seria ad una repubblica democratica viene proprio da questi agglomerati di uomini fedeli al capo, dal quale altro non desiderano che vantaggi e privilegi, fino a che questi – sa va sans dire – ha da offrirne.
Il “tutti contro tutti” in scena in queste ultime ore nel Pdl (prima e dopo le dimissioni del Premier) somiglia molto al disfacimento dell’esercito di un generale sconfitto: spaccature nel gruppo dirigente, divergenze di vedute e disgregazione. «È sempre azzardato avventurarsi in previsioni – scrive Viroli nel 2001 – ma credo proprio che in questi partiti se scompare il leader fondatore scompare anche il partito». Come neve al sole. 

mercoledì 9 novembre 2011

L’estetica del potere


Immagine tratta dalla locandina del film "Silvio forever"

Se c’è stata una costante nell’atteggiamento di Silvio Berlusconi al potere, ebbene, questa è stata la cura dell’immagine. Un’ossessione che ha attraversato questi (quasi) 20 anni con il preciso scopo di  rimandare – chiara e diretta – un’immagine, appunto, spesso rassicurante, il più delle volte imbonitrice, comunque sorridente. A volte beffarda, ad ostentare una sicurezza che non sempre c’era. Ma – si sa – a contare è quello “che si vede”: la merce si compra per ciò che appare e l’elettore acquirente – questo il Berlusconi-pensiero – deve essere conquistato proprio dall’apparenza.
Allora ecco gli spot patinati (celebre rimane la “calza” che si è detto aver avvolto le telecamere che riprendevano l’allora fondatore di Forza Italia), i (dispendiosi) libri inviati “nelle case degli Italiani”, gli artefatti servizi sui giornali di famiglia. Magia della pubblicità e tattica da marketing che si fondono, in una strategia che lascia molto poco al caso. Una strategia inseguita a tutti i costi, fino a produrre l’immagine grottesca degli ultimi tempi, sempre più artificiale e sempre meno credibile in una patetica quanto illusoria fuga dalla vecchiaia.

Ma tra telecamere velate, trucchi di scena e cambi d’abito – un po’ come se tutto fosse, in fondo, una grande giostra o una commedia dell’arte – gli anni sono passati e, come sempre avviene, il trucco si rovina con il tempo, rivelando impietosamente tutte le debolezze che fino ad un minuto prima nascondeva. Ecco che allora oggi, a parlare più di ogni altra dichiarazione, è quel volto, cupo, quasi trasfigurato, che per la prima volta disubbidisce alla ferrea disciplina del sorridere. Non c’è più spazio per il sorriso, anche se forzato. Non è più il momento di studiare l’immagine migliore da offrire. 
Non è più tempo di mescolare estetica e potere. 

sabato 8 ottobre 2011

Le parole contano

Alighiero Boetti, Quando le parole sono stanche, arazzo, anni '80






Quando mi è caduto l’occhio sul titolo di questo piccolo libro mi sono subito incuriosita. “Sulla lingua del tempo presente”, un titolo dal sapore retrò, tanto old-fashioned da riportarci dietro nel tempo, fino all’epoca dei classici, quando i titoli dei saggi latini cominciavano con “De” o, più recentemente, a qualche dissertazione settecentesca. Ed è proprio un saggio questo di Gustavo Zagrebelsky, un saggio breve e affilato, tagliente, quasi a suggerire che (ma del resto lo sapevamo già) a contare non sia il numero delle pagine ma il significato racchiuso in esse.
Poche pagine appunto – 58 per la precisione – per riflettere sullo stato del nostro linguaggio, hic et nunc. Già perché oggi in Italia, secondo il noto costituzionalista, docente universitario e giudice della Corte Costituzionale, siamo immersi – volenti o nolenti – in una modalità espressiva omologata e, quel che è peggio, degenerata. «La nostra vita pubblica si esprime in un linguaggio stereotipato e kitsch», afferma l’autore. La politica parla una lingua piatta, uniforme, sbiadita che tradisce – se è vero che nel linguaggio è racchiusa una visione del mondo – un’omologazione di vedute.
Ecco che allora proliferano espressioni rubate dal mondo imprenditoriale: la politica nostrana si vuole affermare come politica del “fare”. In un’«azienda Italia» in cui tutti devono «fare squadra» e puntare dritto, a tutti i costi e quanto prima all’azione, l’ideologia aziendalista e il linguaggio che ne consegue esaltano il  momento esecutivo, ignorando completamente quello deliberativo, in cui contano anche (e soprattutto) il pensare, l’ascoltare, il dibattere e il deliberare. 
Ma c’è spazio anche per locuzioni come “scendere in politica” e “scendere in campo”, l’una metafora mistico-religiosa ad indicare la discesa del salvatore di turno; l’altra, più profanamente, metafora sportiva. Cosa dire poi della logica dei buoni sentimenti in svendita di cui abbonda il linguaggio di certa politica? Trattasi dell’uso di parole quali amore o dono, il più delle volte esercizio di «pura e tronfia retorica», con subdole finalità imbonitrici.
Per finire con una riflessione sul politically correct: osteggiato perché ipocrita, combattuto perché conservatore, oggi non esiste più e i tabù sono tutti caduti – spiega Zagrebeslky – perché, almeno così dicono, quello che conta è il contesto in cui certe espressioni vengono usate. Ecco che allora oggi è politicamente corretto il dileggio, la scurrilità, l’aggressione verbale e la volgarità, così come la banalizzazione dei problemi e la rassicurazione consolatoria (anche quando infondata).
Uno spazio di riflessione – quello aperto da Zagrebelsky – dove linguistica e politologia si incontrano, per ricordarci che, anche quando non sembra, le parole contano. Eccome. 


Sulla lingua del tempo presente, Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, collana Vele, 2010, pp. 66, € 8.00