mercoledì 31 ottobre 2012

Quella di ieri e quella di oggi



Questione di parole. E di note. Nel 2008 il mantra obamiano Yes we can era stato trasformato nella omonima canzone ad opera di will.i.am. 
Oggi, Anno Domini 2012, nuova parola d’ordine, Forward, e nuova corrispondente song di Ne Yo, Johnny Rzeznik, Herbie Hancock, Delta Rae e Natasha Bedingfield. 

Enjoy! 

martedì 30 ottobre 2012

Good night, Vietnam




Rei di critica, colpevoli di libertà di espressione. Due musicisti vietnamiti sono stati condannati oggi per propaganda contro lo stato, al termine di un processo durato mezza giornata davanti ad un tribunale di Ho Chi Minh City. Il verdetto aggiunge un altro triste capitolo all'attuale giro di vite in corso contro il dissenso nel Paese. Vo Minh Tri (34 anni), meglio noto come Viet Khang, è stato condannato a quattro anni di reclusione piú due agli arresti domiciliari. Tran Vu Anh Binh (37 anni) dovrà invece rimanere in carcere per sei anni, seguiti da altri due da prigioniero in casa.
I due – in carcere dalla fine del 2011 – sono stati condannati per aver composto ed eseguito canzoni – i video circolano anche su YouTube – contro la debolezza del Governo vietnamita in merito al possesso degli arcipelaghi delle isole Spratly e Paracel, contese con la Cina nel Mar cinese meridionale. Più in generale, i loro testi parlano di temi sociali, proteste e dissidenza.
Le accuse di propaganda contro lo Stato e di tentato rovesciamento del governo, vengono regolarmente utilizzate contro dissidenti e attivisti per la democrazia, in un paese in cui il partito comunista ha oramai vietato qualsiasi tipo di dibattito politico. "È un modo grottesco di trattare le persone, colpevoli solo di aver scritto canzoni", afferma Rupert Abbott, Amnesty International, che descrive i due uomini come "prigionieri di coscienza". "Oppositori politici, blogger, poeti, e ora musicisti" Phil Robertson (Human Rights Watch), denuncia la "repressione crescente contro la libertà di espressione". A fine settembre, infatti, tre famosi blogger vietnamiti sono stati condannati al carcere pesante per "propaganda contro lo Stato", provocando numerose proteste, dagli Stati Uniti all'Unione europea. "È scandaloso – prosegue Robertson – che il governo vietnamita abbia condannato alla prigione per la scrittura e l'esecuzione di canzoni. La sfida del Vietnam alle norme internazionali in materia di diritti umani è senza limiti”. 

lunedì 29 ottobre 2012

Europa a due velocità sì o no?



Il Presidente francese François Hollande





Europa a due velocità, nocciolo duro, avanguardia: tanti nomi per un solo scenario, che vedrebbe alcuni paesi europei procedere verso percorsi più approfonditi di integrazione, avanzando autonomamente rispetto agli altri, o semplicemente precedendoli. A risollevare il dibattito sul tema – ampiamente discusso anche in passato – è il presidente francese François Hollande, in una recentissima intervista dalla grande eco mediatica. «La mia proposta è un’Europa che avanza a più velocità, per cerchi differenti». E, a suo parere, l’Europa più spedita dovrebbe coincidere con l’attuale Eurogruppo: «Abbiamo una zona Euro che ha un patrimonio, la moneta unica, e richiede un nuovo governo», prosegue Hollande. «Questa zona deve prendere una dimensione politica». Secondo l’inquilino dell’Eliseo, dunque, i 17 paesi che attualmente condividono la moneta, dovrebbero istituire riunioni mensili dei rispettivi Capi di Stato e di Governo. Inoltre, il consesso dei Ministri delle finanze dovrebbe essere irrobustito e il suo presidente dovrebbe ricevere un mandato chiaro e sufficientemente lungo.

È con questa ricetta che Hollande rilancia un tema antico (perfettamente riassunto da Dastoli, Majocchi e Santaniello in “Prospettiva Europa”, 1996), già circolato tra gli intellettuali europei – europeisti o antieuropeisti, a seconda delle vocazioni e delle nazionalità – e sul quale ora sarebbe auspicabile un dibattito esteso. In principio fu Luis Armand a parlare di un’Europe a la carte, dove ognuno poteva scegliere quello che preferiva: lo sviluppo di ulteriori iniziative, in altre parole, era lasciato alla libera adesione dei singoli paesi. A metà degli anni ’70, ai tempi del Serpente monetario europeo (progenitore dell’attuale moneta unica) Willy Brandt e Leo Tindemans parlavano di Europa a due velocità: «È impossibile presentare oggi un programma d’azione credibile, se si considera assolutamente necessario che in tutti i casi tutte le tappe siano raggiunte da tutti gli stati nello stesso momento». E ancora: «la divergenza obiettiva delle situazioni economiche e finanziarie è tale che, se questa esigenza è posta, il progresso diventa impossibile».
Jacques Delors preferiva invece un’Europa “a geometrie variabili”, per permettere alla recalcitrante Gran Bretagna (e non solo a lei) di svincolarsi – attraverso specifiche deroghe – da alcuni aspetti del contesto comunitario, senza però staccarsene del tutto. Altiero Spinelli invocava, invece, un “nucleo federale” di paesi decisi a procedere lungo la strada dell’integrazione politica. Alla fine degli anni ’80, i cambiamenti economici (l’avvio dei negoziati sull’Unione economico monetaria) e geopolitici (l’imminente crollo dell’Urss) imponevano di ripensare l’architettura europea. Sempre Delors immaginava allora un’Europa “a cerchi concentrici”: il primo cerchio federale, il secondo a natura economica, il terzo per la cooperazione con l’Europa orientale e il quarto – il più largo – per inglobare altri consessi internazionali.

Diverse (anche molto) le soluzioni, ma un medesimo fine: differenziare i livelli di integrazione, per consentire all’Europa di evolvere anche di fronte a divergenze di interessi, differenti volontà politiche o livelli di sviluppo economico diseguali. Oggi è la crisi a riproporre il tema dell’Europa a due velocità. Per alcuni soluzione, per altri tomba del processo di integrazione. Già perché è il concetto stesso di Europa a due velocità ad essere un’arma a doppio taglio. Occorre chiarirsi sulla portata e soprattutto sulla natura della differenziazione. Se il discrimine venisse individuato nella maggiore o minore ricchezza, il progetto sarebbe fortemente discriminatorio e, come tale, negativo per il futuro stesso dell’Unione. Se invece la differenza di velocità risiedesse nella volontà politica, più o meno forte, di compiere scelte per mettere in comune politica e governance economica, be’, allora il progetto sarebbe tutta altra cosa. E, probabilmente potrebbe avere una ricaduta positiva per l’Ue. Il nocciolo duro degli avanguardisti, infatti, potrebbe fungere da traino, aprendo la strada a innovazioni politico-istituzionali non di poco conto. Attualmente i trattati europei già permettono meccanismi a velocità variabile. Si pensi alla cosiddetta cooperazione rafforzata che consente ad un numero limitato di Stati membri di progredire sulla via dell’approfondimento della costruzione europea, nel rispetto del contesto istituzionale. Questo l’escamotage che ha permesso – per fare un esempio recente e significativo – il varo della Tobin Tax. L’accordo di Schengen, ancora, riunisce solo i paesi che hanno optato per la libera circolazione delle persone. Ma se la differenziazione dovesse significare lasciare in dietro la cosiddetta Europa di serie B, abbandonando senza cure i morti sul campo di battaglia della crisi, questo sarebbe il più grande fallimento di tutto il disegno europeo. E l’articolo 3 del Trattato sull’Unione Europea, per cui “essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri” rimarrebbe, ahinoi, vuota retorica.


Questo mio contributo è stato originariamente pubblicato 
sul portale di Libertà e Giustizia, associazione nazionale di cultura politica.

martedì 23 ottobre 2012

Terzo round






Obama vs Romney, Romney vs Obama. Si è svolto ieri il terzo ed ultimo dibattito televisivo tra i due candidati alla Casa Bianca. E ora, inizia il countdown verso l’Election day del 6 novembre. Intanto, più o meno noti vignettisti si sbizzarriscono e ne ... disegnano di tutti i colori.


Ps: a proposito, perché i candidati alle primarie democratiche nostrane non prendono il buon esempio? Un confronto sui temi e suoi programmi non sarebbe, davvero, una cattiva idea. 


giovedì 18 ottobre 2012

I sogni son desideri


Alla domanda “Che cosa sognava di fare da grande?”, risponde: "Il pilota di Formula uno o il collaudatore di vacanze: andare in giro in posti bellissmi ed essere pagato per questo". A parlare è niente meno che Roberto Formigoni, intevistato su Sette del Corriere della Sera del – udite, udite! – febbraio 1997.

In pochi, non c’è che dire, riescono a raggiungere i propri sogni.

lunedì 15 ottobre 2012

Ci mancava questa




"La politica è attraente e piacevole, ma vista da fuori". Flavio Briatore smentisce – buon per noi – il suo possibile coinvolgimento nell’agone politico. Sulle pagine de 'La Stampa' era infatti apparsa la (temibile) notizia di un progetto di Silvio Berlusconi per una lista civica di imprenditori, con a capo proprio Briatore.

"Non farò mai politica, non mi interessa – ha tagliato corto l'ex manager di Formula 1, protagonista del reality 'The apprentice' in onda su Sky – però penso che tutti possano avere opinioni e parlarne. La politica dovrebbe essere fatta da gente che ha la passione ed i politici dovrebbero essere quelli che ti fanno vincere i mondiali, ma adesso non mi sembra sia così". 

Ipse dixit. 

giovedì 11 ottobre 2012

Parola di Pelù (su Renzi e Marchionne)


"Povera Firenze e poveri noi fiorentini che ci troviamo in mezzo al fuoco incrociato di due personaggi tanto rampanti quanto inconcludenti della vita politica ed economica italiana, che in questo momento sembrano fare la sceneggiata degli opposti ma che come tutti gli opposti si assomigliano". Lo scrive su facebook il cantante Piero Pelu' "Firenze bistrattata nei fatti dal sindaco Renzi sprecone, piacione e 'parolaio' che in campagna elettorale aveva promesso la solita formulina-del-mari-e-monti per accontentare e abbindolare tutti, consegnando di fatto oggi la città di Firenze in uno stato di deriva culturale e ambientale senza precedenti - scrive il cantante - Renzi il rottamatore diventato sputtanatore".
E ancora “Firenze bistrattata anche dalle parole dell'amministratore delegato della Fiat Marchionne il quale oggi si arrampica sugli specchi per tentare goffamente di rimediare al suo autogol clamoroso ma che sorvola sempre sulle sue responsabilità riguardo al disastro progettuale e umano dell'azienda di cui è a capo. Marchionne un altro sputtanatore di risorse, un altro uomo dei sogni con il naso lungo".
"Sicuramente da domani i due Pinocchi ritroveranno una convergenza di intenti e di punti di vista, senza se e senza ma che permetterà ad ambedue di continuare a divertirsi alle spalle dei fiorentini e degli italiani che non si possono permettere di vivere nel loro mondo dei balocchi", conclude.

Geniale

martedì 9 ottobre 2012

Renzi, c’è chi dice no



Mi aspettavo Renzi fosse un imbonitore. Sapevo, avendolo visto tante volte in tv, dei suoi toni a forti tinte populistiche. Avevo letto dei suoi one man show. Ma la realtà, come spesso accade, è andata oltre le aspettative. Ed è così che mi sono ritrovata immersa in una specie di avanspettacolo. Niente contro la persona, s’intenda. Ognuno ha il diritto di proporre la propria ricetta per il futuro dell’Italia. Ma il dato, qui, è politico. E di questo si può, anzi, si deve discutere. Ma tutto fuorché discussione c’era in quel teatro gremito di persone, per le quali la c aspirata di Renzi fungeva da elemento consolatore, mero sfogo per quel malcontento covato per molto tempo. Ma oltre a ciò, poco. Non che tutte le proposte di Renzi, si badi, siano errate. Chi sarebbe contrario al rinnovamento, alla volontà di ricambiare una classe dirigente da troppo tempo inamovibile? Chi non vorrebbe, ancora, la modernizzazione del paese? Ma l’incontro – dal forte sapore di marketing e artificio – è un format ripetuto secondo copione in lungo ed in largo per l’Italia. Mai una specificità, mai un riferimento alle problematiche di un territorio. E, quel che è peggio, la totale assenza di ogni forma di dibattito. Bordate anticasta, strizzate d’occhio ai bisogni (sacrosanti) della gente, intervallati con video ruffiani tratti dal (per altro bellissimo) “Non ci resta che piangere”, dalle imitazioni di Crozza e, per parlare di finanza, dalle gag di Cettola Qualunque. Basta così poco agli italiani? E la visione politica? Si strizza l’occhio di qua e di là, per arraffare più voti possibile. E la coerenza?
Ci risiamo, poi, con il temibilissimo mito dell’uomo della provvidenza, ennesimo demiurgo che “scende in campo” a salvare i destini di questo martoriato paese. Ancora una volta – come se dall’esperienza non fosse possibile imparare – gli italiani si infatuano di un personaggio, più che di una persona. Di un vocabolario, più che delle idee. Di un modo di fare, più che delle competenze.
E’ la “sempiterna figura della missione redentrice di un salvatore” scriveva Zagrebelsky nel 2010 (non su Renzi, ben inteso) a proposito della attitudine tutta italiana ad affidarsi al “lui” di turno. Il Lui sul quale riporre tutta la fiducia, senza andare troppo per il sottile. Senza accertarsi delle competenze, senza richiedere certe preziose caratteristiche. E dopo Grillo, il comico che fa politica, abbiamo il politico – fino a prova contraria Renzi è il sindaco di Firenze – che fa il comico, che rende i suoi comizi spettacoli di cabaret. Spettacoli che si concludono con l’immancabile metafora calcistica.

Che, ahinoi, ricorda tanto qualcuno...

Ps: chi scrive, come non si riconosce in Renzi, non si riconosce, sottolineato più volte il non, nella nomenclatura “tradizionale” del PD. Quello che è stato scritto è una semplice disamina di uno stile politico. Per la totale chiarezza: sostengo Sandro Gozi. 

Tobin Tax, ai blocchi di partenza


Finalmente l’Ecofin svoltosi oggi a Lussemburgo ha dato il via libera all’introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie, nota ai più come Tobin Tax. Abbandonata la strada dell’unanimità – alcuni paesi, in primis la Gran Bretagna si sono opposti da subito – si è deciso di percorrere quella della cosiddetta “cooperazione rafforzata”: undici paesi dell’Ue – tra cui l’Italia – adotteranno la Tobin Tax, sulla base di un draft che verrà presentato, sempre all’Ecofin, il prossimo novembre. Tanti i benefici di questa misura. Anzitutto permetterà di reperire nuove preziose risorse per il bilancio europeo. Ma poi scoraggerà le operazioni speculative degli squali della finanza, cominciando così a far pagare coloro che sono stati in gran parte responsabili dell'avvio della crisi. Oltretutto – nel caso dell’Italia – sarà possibile alleggerire il carico fiscale sul lavoro e sull’impresa, andando a tassare le rendite finanziarie. Un modo, in altre parole, per fare della politica fiscale uno strumento per promuovere maggiore giustizia sociale e per incentivare lo sviluppo.

Ma che cosa è esattamente la Tobin Tax? Andiamo a spulciare nei libri di economia per cercare di saperne di più. Innanzitutto partiamo dal nome. Tobin, come James Tobin, ossia l’economista e premio Nobel (professore anche di Mario Monti, eh sì, come è piccolo il mondo) che l’ha inventata. Niente meno che 40 anni fa (il primo studio fu elaborato nel 1972). Già perché la “tassa Tobin” è, oramai, un vecchio progetto, mai realizzato. Ma sempre valido, anzi validissimo. Trattasi, in sostanza, di una tassa da applicare alle transazioni finanziarie internazionali, con l’obiettivo di frenare la speculazione e stabilizzare i mercati, raccogliendo al contempo nuove risorse utili – secondo la versione originaria – ad obiettivi globali (riduzione del divario tra i paesi ricchi e quelli poveri), oggi preziose soprattutto per ridare ossigeno ai debiti sovrani dei paesi in affanno.

La tassa – la cui aliquota di riferimento è compresa tra lo 0,1 e l’1 % – andrebbe a colpire soprattutto la speculazione: scattando implacabile ad ogni transazione, renderebbe poco convenienti, in particolar modo, le compravendite di breve periodo (comprare e vendere a piccoli intervalli di tempo per approfittare degli spostamenti del mercato, significherebbe vedersi applicare l’aliquota ad ogni passaggio). Valido deterrente, dunque, la Tobin Tax annullerebbe l’appetibilità di simili operazioni per i falchi della finanza. 
E se pensiamo che è stata proprio la finanza globale più spregiudicata ad innescare la crisi di cui ancora oggi stiamo pagando le (amare) conseguenze, be’, allora la Tobin tax diviene subito, agli occhi dei più, la “tassa buona” per eccellenza. Capace di rivalersi – una volta per tutte – sui veri responsabili del virus che ha drammaticamente contagiato l’economia reale. Cavallo di battaglia del movimento No Global, la tassa di Tobin era temporaneamente tornata in auge dieci anni fa (ricordate gli adesivi della campagna promossa dall’associazione francese Attac, con lo squalo – munito di ventiquattro ore – il cui feroce morso veniva fermato da una semplice matita, quella per la raccolta firme pro aliquota?), senza essere di fatto mai attuata. Le pressioni esercitate del mondo finanziario, riverito (anche dalla politica) e lasciato a mani libere, hanno sempre avuto la meglio.

Oggi, a quanto pare, qualcosa sta cambiando.


venerdì 5 ottobre 2012

Inventare il futuro



Oggi, un anno fa, il mondo salutava Steve Jobs, forse il personaggio che – negli ultimi tempi – ha meglio incarnato il sogno americano, con la sua grande impresa cominciata in un garage nella Silicon Valley e approdata nell'olimpo dell'hightech. Creativo, coraggioso, tenace. Come un altro personaggio che – in una stagione diversa e in un paese diverso – ha ugualmente segnato la storia: Adriano Olivetti.

Bella, bellissima, questa puntata di “Correva l’anno” (Rai3), che ripercorre il fil rouge che unisce le prime macchine da scrivere ai più moderni computer, Olivetti a Jobs. Una continuità non solo in fatto di tecnologie e elettronica, ma anche in termini di visione, di capacità di inventare il futuro. Olivetti, con il suo capitalismo illuminato in grado (nell’Italia degli anni ‘50!) di introdurre in fabbrica asili e biblioteche, così come di includere intellettuali e artisti nella gestione d’impresa. Jobs, con la sua creatività, fermamente convinto della funzione artistica delle sue creazioni e in grado di ispirare giovani in ogni parte del mondo.

Dalla Lettera22 Olivetti, esposta al MoMa di New York, agli oggetti culto di Apple. Storie di successo. Perché, ancora oggi, sono gli uomini – con le loro idee – a fare la storia.


Il video comparso oggi sul sito di Apple, "Remembering Steve":

lunedì 1 ottobre 2012

La lunga tradizione del secolo breve


La prima e la seconda guerra mondiale, la grande crisi del ’29. Ma ancora, lo spettro dei fascismi, l’invenzione del welfare state, le personalità di Reagan e della Tatcher. Per capire questo e molto altro ancora, c’è un testo fondamentale, vera e propria stella polare per la comprensione dei complessi meccanismi sociali e politici del novecento. Si tratta de “Il Secolo breve”, scritto nel 1994 da Eric Hobsbawm. Distinto signore inglese che oggi ci ha lasciati, all’età di 95 anni. Volume destinato a durare, a partire dal titolo, che rappresenta, ancora oggi, uno dei concetti chiave della storia contemporanea. Secondo Hobsbawm, il ‘900 comincia, dal punto di vista storico, più tardi rispetto al suo inizio cronologico. Prende il via dentro le umide trincee del primo conflitto mondiale, vero turning point rispetto agli anni precedenti, ultima illusoria appendice della belle époque ottocentesca. Primo conflitto di massa, meccanizzato ed ideologizzato, è proprio la grande guerra ad aprire ad un secolo di lacerazioni e rivoluzioni, di speranze e di atrocità. Ed è sempre il senso storico a suggerirci che – spiega Hobsbawm – il 900 finisce tra il 1989 e il 1991, con l’implosione del blocco sovietico. Da marxista (onesto intellettualmente), Hobsbawm non insegue comode spiegazioni: la resa del’Urss non avvenne (solo) a causa della supremazia militare e tecnologica degli Stati uniti, ma soprattutto per l’incapacità del regime sovietico di reggere la sfida del benessere. La “cortina di ferro” aveva, infatti, finito per separare non solo due ideologie ma due stili di vita, troppo differenti per poter esistere entrambi. Ma – anche a fronte del violento fallimento dell’esperimento pratico – Hobsbawm non abbandona mai, in fondo, la fiducia per quelle idee che, ne era convinto, avrebbero potuto cambiare il corso delle cose. Il mondo che ci ha raccontato lo ha vissuto, eccome, Hobsbawm, cosmopolita e poliglotta. Nasce nel 1917 ad Alessandria d’Egitto da genitori ebrei. Cresce tra Vienna e Berlino. Quando l’Europa continentale vive la tragica ascesa di Hitler si trasferisce in Inghilterra. Studia a Cambridge e successivamente diviene professore al Birkbeck College di Londra. Proverbiali la sua lucidità e la sua capacità di raccontare e di concettualizzare la storia. Capace di farci appassionare ad essa. E di farci capire che, in fondo, il nostro presente non è altro che la storia di domani.