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lunedì 29 ottobre 2012

Europa a due velocità sì o no?



Il Presidente francese François Hollande





Europa a due velocità, nocciolo duro, avanguardia: tanti nomi per un solo scenario, che vedrebbe alcuni paesi europei procedere verso percorsi più approfonditi di integrazione, avanzando autonomamente rispetto agli altri, o semplicemente precedendoli. A risollevare il dibattito sul tema – ampiamente discusso anche in passato – è il presidente francese François Hollande, in una recentissima intervista dalla grande eco mediatica. «La mia proposta è un’Europa che avanza a più velocità, per cerchi differenti». E, a suo parere, l’Europa più spedita dovrebbe coincidere con l’attuale Eurogruppo: «Abbiamo una zona Euro che ha un patrimonio, la moneta unica, e richiede un nuovo governo», prosegue Hollande. «Questa zona deve prendere una dimensione politica». Secondo l’inquilino dell’Eliseo, dunque, i 17 paesi che attualmente condividono la moneta, dovrebbero istituire riunioni mensili dei rispettivi Capi di Stato e di Governo. Inoltre, il consesso dei Ministri delle finanze dovrebbe essere irrobustito e il suo presidente dovrebbe ricevere un mandato chiaro e sufficientemente lungo.

È con questa ricetta che Hollande rilancia un tema antico (perfettamente riassunto da Dastoli, Majocchi e Santaniello in “Prospettiva Europa”, 1996), già circolato tra gli intellettuali europei – europeisti o antieuropeisti, a seconda delle vocazioni e delle nazionalità – e sul quale ora sarebbe auspicabile un dibattito esteso. In principio fu Luis Armand a parlare di un’Europe a la carte, dove ognuno poteva scegliere quello che preferiva: lo sviluppo di ulteriori iniziative, in altre parole, era lasciato alla libera adesione dei singoli paesi. A metà degli anni ’70, ai tempi del Serpente monetario europeo (progenitore dell’attuale moneta unica) Willy Brandt e Leo Tindemans parlavano di Europa a due velocità: «È impossibile presentare oggi un programma d’azione credibile, se si considera assolutamente necessario che in tutti i casi tutte le tappe siano raggiunte da tutti gli stati nello stesso momento». E ancora: «la divergenza obiettiva delle situazioni economiche e finanziarie è tale che, se questa esigenza è posta, il progresso diventa impossibile».
Jacques Delors preferiva invece un’Europa “a geometrie variabili”, per permettere alla recalcitrante Gran Bretagna (e non solo a lei) di svincolarsi – attraverso specifiche deroghe – da alcuni aspetti del contesto comunitario, senza però staccarsene del tutto. Altiero Spinelli invocava, invece, un “nucleo federale” di paesi decisi a procedere lungo la strada dell’integrazione politica. Alla fine degli anni ’80, i cambiamenti economici (l’avvio dei negoziati sull’Unione economico monetaria) e geopolitici (l’imminente crollo dell’Urss) imponevano di ripensare l’architettura europea. Sempre Delors immaginava allora un’Europa “a cerchi concentrici”: il primo cerchio federale, il secondo a natura economica, il terzo per la cooperazione con l’Europa orientale e il quarto – il più largo – per inglobare altri consessi internazionali.

Diverse (anche molto) le soluzioni, ma un medesimo fine: differenziare i livelli di integrazione, per consentire all’Europa di evolvere anche di fronte a divergenze di interessi, differenti volontà politiche o livelli di sviluppo economico diseguali. Oggi è la crisi a riproporre il tema dell’Europa a due velocità. Per alcuni soluzione, per altri tomba del processo di integrazione. Già perché è il concetto stesso di Europa a due velocità ad essere un’arma a doppio taglio. Occorre chiarirsi sulla portata e soprattutto sulla natura della differenziazione. Se il discrimine venisse individuato nella maggiore o minore ricchezza, il progetto sarebbe fortemente discriminatorio e, come tale, negativo per il futuro stesso dell’Unione. Se invece la differenza di velocità risiedesse nella volontà politica, più o meno forte, di compiere scelte per mettere in comune politica e governance economica, be’, allora il progetto sarebbe tutta altra cosa. E, probabilmente potrebbe avere una ricaduta positiva per l’Ue. Il nocciolo duro degli avanguardisti, infatti, potrebbe fungere da traino, aprendo la strada a innovazioni politico-istituzionali non di poco conto. Attualmente i trattati europei già permettono meccanismi a velocità variabile. Si pensi alla cosiddetta cooperazione rafforzata che consente ad un numero limitato di Stati membri di progredire sulla via dell’approfondimento della costruzione europea, nel rispetto del contesto istituzionale. Questo l’escamotage che ha permesso – per fare un esempio recente e significativo – il varo della Tobin Tax. L’accordo di Schengen, ancora, riunisce solo i paesi che hanno optato per la libera circolazione delle persone. Ma se la differenziazione dovesse significare lasciare in dietro la cosiddetta Europa di serie B, abbandonando senza cure i morti sul campo di battaglia della crisi, questo sarebbe il più grande fallimento di tutto il disegno europeo. E l’articolo 3 del Trattato sull’Unione Europea, per cui “essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri” rimarrebbe, ahinoi, vuota retorica.


Questo mio contributo è stato originariamente pubblicato 
sul portale di Libertà e Giustizia, associazione nazionale di cultura politica.

martedì 9 ottobre 2012

Tobin Tax, ai blocchi di partenza


Finalmente l’Ecofin svoltosi oggi a Lussemburgo ha dato il via libera all’introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie, nota ai più come Tobin Tax. Abbandonata la strada dell’unanimità – alcuni paesi, in primis la Gran Bretagna si sono opposti da subito – si è deciso di percorrere quella della cosiddetta “cooperazione rafforzata”: undici paesi dell’Ue – tra cui l’Italia – adotteranno la Tobin Tax, sulla base di un draft che verrà presentato, sempre all’Ecofin, il prossimo novembre. Tanti i benefici di questa misura. Anzitutto permetterà di reperire nuove preziose risorse per il bilancio europeo. Ma poi scoraggerà le operazioni speculative degli squali della finanza, cominciando così a far pagare coloro che sono stati in gran parte responsabili dell'avvio della crisi. Oltretutto – nel caso dell’Italia – sarà possibile alleggerire il carico fiscale sul lavoro e sull’impresa, andando a tassare le rendite finanziarie. Un modo, in altre parole, per fare della politica fiscale uno strumento per promuovere maggiore giustizia sociale e per incentivare lo sviluppo.

Ma che cosa è esattamente la Tobin Tax? Andiamo a spulciare nei libri di economia per cercare di saperne di più. Innanzitutto partiamo dal nome. Tobin, come James Tobin, ossia l’economista e premio Nobel (professore anche di Mario Monti, eh sì, come è piccolo il mondo) che l’ha inventata. Niente meno che 40 anni fa (il primo studio fu elaborato nel 1972). Già perché la “tassa Tobin” è, oramai, un vecchio progetto, mai realizzato. Ma sempre valido, anzi validissimo. Trattasi, in sostanza, di una tassa da applicare alle transazioni finanziarie internazionali, con l’obiettivo di frenare la speculazione e stabilizzare i mercati, raccogliendo al contempo nuove risorse utili – secondo la versione originaria – ad obiettivi globali (riduzione del divario tra i paesi ricchi e quelli poveri), oggi preziose soprattutto per ridare ossigeno ai debiti sovrani dei paesi in affanno.

La tassa – la cui aliquota di riferimento è compresa tra lo 0,1 e l’1 % – andrebbe a colpire soprattutto la speculazione: scattando implacabile ad ogni transazione, renderebbe poco convenienti, in particolar modo, le compravendite di breve periodo (comprare e vendere a piccoli intervalli di tempo per approfittare degli spostamenti del mercato, significherebbe vedersi applicare l’aliquota ad ogni passaggio). Valido deterrente, dunque, la Tobin Tax annullerebbe l’appetibilità di simili operazioni per i falchi della finanza. 
E se pensiamo che è stata proprio la finanza globale più spregiudicata ad innescare la crisi di cui ancora oggi stiamo pagando le (amare) conseguenze, be’, allora la Tobin tax diviene subito, agli occhi dei più, la “tassa buona” per eccellenza. Capace di rivalersi – una volta per tutte – sui veri responsabili del virus che ha drammaticamente contagiato l’economia reale. Cavallo di battaglia del movimento No Global, la tassa di Tobin era temporaneamente tornata in auge dieci anni fa (ricordate gli adesivi della campagna promossa dall’associazione francese Attac, con lo squalo – munito di ventiquattro ore – il cui feroce morso veniva fermato da una semplice matita, quella per la raccolta firme pro aliquota?), senza essere di fatto mai attuata. Le pressioni esercitate del mondo finanziario, riverito (anche dalla politica) e lasciato a mani libere, hanno sempre avuto la meglio.

Oggi, a quanto pare, qualcosa sta cambiando.


martedì 26 giugno 2012

Quando anche la tassa piace


Che sia la volta buona? Per mesi, lo scorso inverno, ha campeggiato nei titoli dei quotidiani e rimbalzato sulle pagine dei social network, diventando inevitabile e ripetitivo leitmotiv di ogni Tg. Stiamo parlando della Tobin Tax, l'arcinota tassa sulle transazioni finanziarie (in inglese FFT, financial transaction act). Alcuni paesi europei, infatti, hanno deciso di avviare la cosiddetta procedura di cooperazione rafforzata, quella che permette - nei casi in cui manca l'unanimità - di procedere comunque, cominciando a buttare giù un progetto per l'introduzione dell'imposta. Ma che cosa è esattamente la Tobin Tax? Andiamo a spulciare nei libri di economia per cercare di saperne di più.
Il Prof. James Tobin
Innanzitutto partiamo dal nome. Tobin, come James Tobin, ossia l’economista e premio Nobel (professore anche di Mario Monti, eh sì, come è piccolo il mondo) che l’ha inventata. Niente meno che 40 anni fa (il primo studio fu elaborato nel 1972). Già perché la “tassa Tobin” è, oramai, un vecchio progetto, mai realizzato. Ma sempre valido, anzi validissimo.
Trattasi, in sostanza, di una tassa da applicare alle transazioni finanziarie internazionalicon l’obiettivo di frenare la speculazione e stabilizzare i mercati, raccogliendo al contempo nuove risorse utili – secondo la versione originaria – ad obiettivi globali (riduzione del divario tra i paesi ricchi e quelli poveri), oggi preziose soprattutto per ridare ossigeno ai debiti sovrani dei paesi in affanno.
La tassa – la cui aliquota di riferimento è compresa tra lo 0,1 e l’1 % – andrebbe a colpire soprattutto la speculazione: scattando implacabile ad ogni transazione, renderebbe poco convenienti, in particolar modo, le compravendite di breve periodo (comprare e vendere a piccoli intervalli di tempo per approfittare degli spostamenti del mercato, significherebbe vedersi applicare l’aliquota ad ogni passaggio). Valido deterrente, dunque, la Tobin Tax annullerebbe l’appetibilità di simili operazioni per i falchi della finanza. 
E se pensiamo che è stata proprio la finanza globale più spregiudicata ad innescare la crisi di cui ancora oggi stiamo pagando le (amare) conseguenze, be’, allora la Tobin tax diviene subito, agli occhi dei più, la “tassa buona” per eccellenza. Capace di rivalersi – una volta per tutte – sui veri responsabili del virus che ha drammaticamente contagiato l’economia reale.
L'adesivo della campagna
promossa dall'associazione ATTAC
Cavallo di battaglia del movimento No Global, la tassa di Tobin era temporaneamente tornata in auge dieci anni fa (ricordate gli adesivi della campagna promossa dall’associazione francese Attac, con lo squalo – munito di ventiquattro ore – il cui feroce morso veniva fermato da una semplice matita, quella per la raccolta firme pro aliquota?), senza essere di fatto mai attuata. Le pressioni esercitate del mondo finanziario, riverito (anche dalla politica) e lasciato a mani libere, hanno sempre avuto la meglio.
E oggi a rispolverarla e rilanciarla ci pensano in particolare Francia e Germania (dal ministro dell'economia tedesco, Wolfgang Schauble, la svolta: durante l'ultimo Ecofin ha proposto un'alzata di mano per valutare la possibilità di avviare la cooperazione rafforzata). Mentre il Premier inglese David Cameron – alla ricerca del consenso della City – non ne vuole sentire a parlare: “gli Stati che vogliono introdurre la tassa sulle transazioni finanziarie sono liberi di farlo – dichiarò senza mezzi termini qualche mese fa – ma bloccherò l’idea di una tassa europea”. E, ad oggi, non sembra aver cambiato idea. L'Italia, dal canto suo, appoggia l’ipotesi di un prelievo sugli scambi finanziari, ma - al momento - ha preferito non prendere impegni concreti. Il nostro paese, infatti, avrebbe preferito una applicazione estesa a tutti i 27 (o 26, senza il Regno Unito) paesi dell’Unione. Già perché, con una misura del genere, il rischio è quello di provocare l’effetto “fuga dei capitali”: gli investitori andrebbero ad operare nei Paesi detassati. Rischio che anche Mario Monti – pur favorevole (“per ragioni economiche e politiche”) alla misura – ha ben presente.