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martedì 26 giugno 2012

Quando anche la tassa piace


Che sia la volta buona? Per mesi, lo scorso inverno, ha campeggiato nei titoli dei quotidiani e rimbalzato sulle pagine dei social network, diventando inevitabile e ripetitivo leitmotiv di ogni Tg. Stiamo parlando della Tobin Tax, l'arcinota tassa sulle transazioni finanziarie (in inglese FFT, financial transaction act). Alcuni paesi europei, infatti, hanno deciso di avviare la cosiddetta procedura di cooperazione rafforzata, quella che permette - nei casi in cui manca l'unanimità - di procedere comunque, cominciando a buttare giù un progetto per l'introduzione dell'imposta. Ma che cosa è esattamente la Tobin Tax? Andiamo a spulciare nei libri di economia per cercare di saperne di più.
Il Prof. James Tobin
Innanzitutto partiamo dal nome. Tobin, come James Tobin, ossia l’economista e premio Nobel (professore anche di Mario Monti, eh sì, come è piccolo il mondo) che l’ha inventata. Niente meno che 40 anni fa (il primo studio fu elaborato nel 1972). Già perché la “tassa Tobin” è, oramai, un vecchio progetto, mai realizzato. Ma sempre valido, anzi validissimo.
Trattasi, in sostanza, di una tassa da applicare alle transazioni finanziarie internazionalicon l’obiettivo di frenare la speculazione e stabilizzare i mercati, raccogliendo al contempo nuove risorse utili – secondo la versione originaria – ad obiettivi globali (riduzione del divario tra i paesi ricchi e quelli poveri), oggi preziose soprattutto per ridare ossigeno ai debiti sovrani dei paesi in affanno.
La tassa – la cui aliquota di riferimento è compresa tra lo 0,1 e l’1 % – andrebbe a colpire soprattutto la speculazione: scattando implacabile ad ogni transazione, renderebbe poco convenienti, in particolar modo, le compravendite di breve periodo (comprare e vendere a piccoli intervalli di tempo per approfittare degli spostamenti del mercato, significherebbe vedersi applicare l’aliquota ad ogni passaggio). Valido deterrente, dunque, la Tobin Tax annullerebbe l’appetibilità di simili operazioni per i falchi della finanza. 
E se pensiamo che è stata proprio la finanza globale più spregiudicata ad innescare la crisi di cui ancora oggi stiamo pagando le (amare) conseguenze, be’, allora la Tobin tax diviene subito, agli occhi dei più, la “tassa buona” per eccellenza. Capace di rivalersi – una volta per tutte – sui veri responsabili del virus che ha drammaticamente contagiato l’economia reale.
L'adesivo della campagna
promossa dall'associazione ATTAC
Cavallo di battaglia del movimento No Global, la tassa di Tobin era temporaneamente tornata in auge dieci anni fa (ricordate gli adesivi della campagna promossa dall’associazione francese Attac, con lo squalo – munito di ventiquattro ore – il cui feroce morso veniva fermato da una semplice matita, quella per la raccolta firme pro aliquota?), senza essere di fatto mai attuata. Le pressioni esercitate del mondo finanziario, riverito (anche dalla politica) e lasciato a mani libere, hanno sempre avuto la meglio.
E oggi a rispolverarla e rilanciarla ci pensano in particolare Francia e Germania (dal ministro dell'economia tedesco, Wolfgang Schauble, la svolta: durante l'ultimo Ecofin ha proposto un'alzata di mano per valutare la possibilità di avviare la cooperazione rafforzata). Mentre il Premier inglese David Cameron – alla ricerca del consenso della City – non ne vuole sentire a parlare: “gli Stati che vogliono introdurre la tassa sulle transazioni finanziarie sono liberi di farlo – dichiarò senza mezzi termini qualche mese fa – ma bloccherò l’idea di una tassa europea”. E, ad oggi, non sembra aver cambiato idea. L'Italia, dal canto suo, appoggia l’ipotesi di un prelievo sugli scambi finanziari, ma - al momento - ha preferito non prendere impegni concreti. Il nostro paese, infatti, avrebbe preferito una applicazione estesa a tutti i 27 (o 26, senza il Regno Unito) paesi dell’Unione. Già perché, con una misura del genere, il rischio è quello di provocare l’effetto “fuga dei capitali”: gli investitori andrebbero ad operare nei Paesi detassati. Rischio che anche Mario Monti – pur favorevole (“per ragioni economiche e politiche”) alla misura – ha ben presente. 

domenica 6 maggio 2012

ψήφος, stimme, voto, vote



Giornata importante, questa, per la politica europea. Oggi, infatti, è il giorno delle elezioni in Grecia, le prime dopo il collasso dovuto alla crisi finanziaria e la conseguente entrata in scena del governo tecnico. Ma è anche il giorno del secondo turno delle Presidenziali di Francia. In Italia, invece, è la volta di una significativa tornata di amministrative, mentre in Germania si vota nel nell'importante Land Schleswig-Holstein. 

Ad Atene la posta in gioco è quella della governabilità del paese, ma anche la sua permanenza nell'Eurozona. In mezzo a pericolosi estremismi, rossi e neri, che sembrano spiccare il volo. In Italia, i dieci milioni di elettori che andranno alle urne per il voto amministrativo lo faranno sullo sfondo di molte le novità. Anzitutto la spaccatura Pdl-Lega nel centrodestra. Il Pd, dal canto suo, potrebbe tenere o subire erosioni di consenso da parte dei partiti antisistema o della sinistra più radicale. Pure senza influenze dirette sul Governo di Mario Monti, il voto - soprattutto se di protesta - potrebbe aprire una fase di (ulteriore) instabilità, con riflessi anche sul (complesso) risanamento economico. 

Nello Schleswig-Holstein, il land più settentrionale della Germania, al confine con la Danimarca, si profila un testa a testa tra i cristiano democratici della Cdu - il partito di Angela Merkel -  e i socialisti targati Spd. Al voto ben  2,2 milioni di cittadini. Un voto regionale, sì, ma molto importante anche per gli equilibri del governo federale di Angela Merkel, e cioè del pilastro che oggi regge, con fatica e suscitando molte critiche, le sorti traballanti di un'Europa in balia della crisi. In attesa di un altra importante giornata elettorale, quella in programma tra una settimana nel popoloso Land del Reno-Westfalia. 


martedì 24 aprile 2012

Il voto che preoccupa l’Europa


C’è preoccupazione, in Europa, per il voto francese della scorsa domenica. Ma a suscitare timori diffusi non è tanto lo scontro finale tra Sarkozy e Hollande, in programma per il prossimo 6 maggio. A spaventare è piuttosto il trionfo del Front National di Marine Le Pen, che, al primo turno, si è conquistata un sensazionale 17,9%, mai raggiunto prima, nemmeno dal padre (quando nel 2002 Jean Marie Le Pen travolse Jospin, aveva solo sfiorato il 17 per cento).
Secondo quanto riferisce Le Figarò, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha definito "preoccupante" il punteggio ottenuto dall’estrema destra. Come dire, l’energica bionda del FN non diventerà presidente, ma il partito da lei guidato si aggiudica comunque il terzo posto nella politica d’oltralpe. Rincara la dose, il Ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, che – ribadendo l'importanza della collaborazione franco-tedesca per il futuro dell'Europa – tira un sospiro di sollievo nel vedere al secondo turno due candidati "democratici", etichetta inapplicabile per l’euroscettica Le Pen.
Meno esplicite, ma ugualmente intimorite, le istituzioni dell’Ue, che – per voce di Olivier Bailly, spokesperson del presidente della Commissione europea José Manuel Barroso – lanciano un appello ai leader europei, invitandoli a "non cedere alla deriva populista, ma a continuare ad avanzare lungo la strada dell’Europa della pace e della crescita”. Il tutto – è vero – a dispetto della crisi, rea di aver aggravato le disuguaglianze sociali e aver reso, così, il “terreno più che mai fertile per lo sviluppo del populismo politico”. E c’è chi – come il socialista Jean Asselborn, ministro degli Esteri del Lussemburgo – se la prende con Nicolas Sarkozy, che – con le sue critiche al sistema Schengen – sarebbe in parte responsabile del punteggio della candidata del FN, mentre secondo il danese Villy Sovndal, il risultato di Marine Le Pen si inserisce in un trend generale, che già da qualche tempo ha visto crescere in Danimarca, in Austria ed in Finlandia i movimenti di estrema destra.
E, in effetti, i timori sembrano essere fondati. Il FN, infatti, non esita a descrivere l’integrazione europea come un processo “contro i popoli d’Europa” e l’Euro come un novello Minotauro al quale sadici eurocrati offrono in pasto vittime greche.
Alla prossima puntata....

venerdì 20 aprile 2012

Tra i due litiganti, l'Europa.


Peter Schrank -  Handelszeitung


A poche ore dal primo turno delle presidenziali francesi, facciamo il “toto-europeismo”. Che Europa vogliono i due leader in lizza per l’Eliseo? Quali cambiamenti auspicano e quali proposte avanzano?
Andiamo con ordine. Innanzitutto, partiamo da un dato di fatto: per riavvicinarsi al proprio elettorato, Sarkozy si è allontanato, e di molto, da Angela Merkel, con la quale nei, mesi scorsi, aveva vissuto una (apparentemente) solida entente cordiale. “Merkozy”, dunque, “è morto”. Già perché il presidente uscente ha affermato di voler congelare il contributo francese all'Unione europea, rincorrendo così Marine Le Pen, leader dell’estrema destra, la prima a voler ridurre la somma francese versata a Bruxelles. E soprattutto, Sarkozy sarebbe anche persuaso della necessità di riscrivere lo statuto della Banca centrale europea (BCE) rendendola sempre più simile alla Federal Reserve. E cioè, riconoscendole il ruolo di prestatore di ultima istanza. Irritata la reazione di Berlino, da sempre contraria a cambiamenti di pelle dell’istituzione di Francoforte. Il governo tedesco è, infatti, «profondamente convinto che la Bce debba esercitare il suo mandato in modo totalmente indipendente dalla politica».
Dal canto suo, il candidato socialista Francois Hollande lancia un appello alla Eurotower, chiedendo di tagliare i tassi di interesse al fine di favorire la crescita in Europa.
Ai microfoni di radio Europe 1, Hollande ha precisato che ''ci sono due modi per rilanciare la crescita: o la Banca centrale europea abbassa i tassi di interesse, oppure concede prestiti direttamente agli Stati membri''.

A quanto pare, dunque, l’austerity promossa dall’Ue negli ultimi mesi non convince nessuno. E gli slogan “pro crescita”, ca va sans dire, restano sempre quelli vincenti in campagna elettorale. Ma, al netto delle ricette anti-crisi, a fare la differenza tra i due sfidanti è la concezione stessa dell’Unione: «Sarkozy è per un’Europa intergovernativa, che risponda alle decisioni di Parigi e che non accetti il metodo comunitario con un ruolo centrale della Commissione e del Parlamento europeo – spiega a Lettera43.it François Lafond, analista politico francese e già consulente di ministeri e think-tank– mentre Hollande ha un’idea di Europa molto più federalista, orientata verso un futuro comune. Ma deve convincere una parte della sua maggioranza assai più critica su questo punto». Quel che è certo è che il voto francese è destinato ad influire sui rapporti di potere dell’intero Vecchio Continente. Intanto, secondo l’ultimo sondaggio di questa mattina, Hollande è in testa di quattro punti percentuali rispetto al presidente uscente.