sabato 8 ottobre 2011

Le parole contano

Alighiero Boetti, Quando le parole sono stanche, arazzo, anni '80






Quando mi è caduto l’occhio sul titolo di questo piccolo libro mi sono subito incuriosita. “Sulla lingua del tempo presente”, un titolo dal sapore retrò, tanto old-fashioned da riportarci dietro nel tempo, fino all’epoca dei classici, quando i titoli dei saggi latini cominciavano con “De” o, più recentemente, a qualche dissertazione settecentesca. Ed è proprio un saggio questo di Gustavo Zagrebelsky, un saggio breve e affilato, tagliente, quasi a suggerire che (ma del resto lo sapevamo già) a contare non sia il numero delle pagine ma il significato racchiuso in esse.
Poche pagine appunto – 58 per la precisione – per riflettere sullo stato del nostro linguaggio, hic et nunc. Già perché oggi in Italia, secondo il noto costituzionalista, docente universitario e giudice della Corte Costituzionale, siamo immersi – volenti o nolenti – in una modalità espressiva omologata e, quel che è peggio, degenerata. «La nostra vita pubblica si esprime in un linguaggio stereotipato e kitsch», afferma l’autore. La politica parla una lingua piatta, uniforme, sbiadita che tradisce – se è vero che nel linguaggio è racchiusa una visione del mondo – un’omologazione di vedute.
Ecco che allora proliferano espressioni rubate dal mondo imprenditoriale: la politica nostrana si vuole affermare come politica del “fare”. In un’«azienda Italia» in cui tutti devono «fare squadra» e puntare dritto, a tutti i costi e quanto prima all’azione, l’ideologia aziendalista e il linguaggio che ne consegue esaltano il  momento esecutivo, ignorando completamente quello deliberativo, in cui contano anche (e soprattutto) il pensare, l’ascoltare, il dibattere e il deliberare. 
Ma c’è spazio anche per locuzioni come “scendere in politica” e “scendere in campo”, l’una metafora mistico-religiosa ad indicare la discesa del salvatore di turno; l’altra, più profanamente, metafora sportiva. Cosa dire poi della logica dei buoni sentimenti in svendita di cui abbonda il linguaggio di certa politica? Trattasi dell’uso di parole quali amore o dono, il più delle volte esercizio di «pura e tronfia retorica», con subdole finalità imbonitrici.
Per finire con una riflessione sul politically correct: osteggiato perché ipocrita, combattuto perché conservatore, oggi non esiste più e i tabù sono tutti caduti – spiega Zagrebeslky – perché, almeno così dicono, quello che conta è il contesto in cui certe espressioni vengono usate. Ecco che allora oggi è politicamente corretto il dileggio, la scurrilità, l’aggressione verbale e la volgarità, così come la banalizzazione dei problemi e la rassicurazione consolatoria (anche quando infondata).
Uno spazio di riflessione – quello aperto da Zagrebelsky – dove linguistica e politologia si incontrano, per ricordarci che, anche quando non sembra, le parole contano. Eccome. 


Sulla lingua del tempo presente, Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, collana Vele, 2010, pp. 66, € 8.00

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