Alighiero Boetti, Quando le parole sono stanche, arazzo, anni '80 |
Quando mi è caduto l’occhio sul titolo di questo piccolo
libro mi sono subito incuriosita. “Sulla lingua del tempo presente”, un titolo dal sapore retrò, tanto old-fashioned
da riportarci dietro nel tempo, fino all’epoca dei classici, quando i titoli
dei saggi latini cominciavano con “De” o, più recentemente, a qualche
dissertazione settecentesca. Ed è proprio un saggio questo di Gustavo
Zagrebelsky, un saggio breve e affilato,
tagliente, quasi a suggerire che (ma del resto lo sapevamo già) a contare non sia
il numero delle pagine ma il significato racchiuso in esse.
Poche pagine appunto – 58 per la
precisione – per riflettere sullo stato del nostro linguaggio, hic et nunc.
Già perché oggi in Italia, secondo il noto costituzionalista, docente
universitario e giudice della Corte Costituzionale, siamo immersi – volenti o
nolenti – in una modalità espressiva omologata e, quel che è peggio,
degenerata. «La nostra vita pubblica si esprime in un linguaggio stereotipato e
kitsch», afferma l’autore. La politica parla una lingua piatta, uniforme,
sbiadita che tradisce – se è vero che nel linguaggio è racchiusa una visione
del mondo – un’omologazione di vedute.
Ecco che allora proliferano
espressioni rubate dal mondo imprenditoriale: la politica nostrana si vuole
affermare come politica del “fare”. In un’«azienda Italia» in cui tutti devono
«fare squadra» e puntare dritto, a tutti i costi e quanto prima all’azione,
l’ideologia aziendalista e il linguaggio che ne consegue esaltano il momento esecutivo, ignorando
completamente quello deliberativo, in cui contano anche (e soprattutto) il
pensare, l’ascoltare, il dibattere e il deliberare.
Ma c’è spazio anche per locuzioni
come “scendere in politica” e “scendere in campo”, l’una metafora
mistico-religiosa ad indicare la discesa del salvatore di turno; l’altra, più profanamente,
metafora sportiva. Cosa dire poi della logica dei buoni sentimenti in svendita
di cui abbonda il linguaggio di certa politica? Trattasi dell’uso di parole
quali amore o dono, il più delle volte esercizio di «pura e tronfia retorica»,
con subdole finalità imbonitrici.
Per finire con una riflessione sul politically
correct: osteggiato perché ipocrita,
combattuto perché conservatore, oggi non esiste più e i tabù sono tutti caduti
– spiega Zagrebeslky – perché, almeno così dicono, quello che conta è il
contesto in cui certe espressioni vengono usate. Ecco che allora oggi è
politicamente corretto il dileggio, la scurrilità, l’aggressione verbale e la
volgarità, così come la banalizzazione dei problemi e la rassicurazione
consolatoria (anche quando infondata).
Uno spazio di riflessione – quello
aperto da Zagrebelsky – dove linguistica e politologia si incontrano, per
ricordarci che, anche quando non sembra, le parole contano. Eccome.
Sulla lingua del tempo presente, Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, collana Vele, 2010, pp.
66, € 8.00
complicato
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