Low profile e understatement. Due parole (anglosassoni) descrivono
particolarmente bene lo stile del nostro Presidente
del Consiglio Mario Monti, in patria come all’estero. Ma molto (forse
troppo e in modo caricaturale) è stato detto della sobrietà dell’era del
“loden”. Non è di questo che vogliamo parlare, ora. Quello che ci è piaciuto
della visita di Monti negli States è l’immagine di un leader che ha, sì, a cuore
il destino del proprio paese, ma che ragiona in termini europei. Parla, eccome,
d’Europa, Monti. C’è l’Italia, ma è saldamente e fermamente collocata – nella
strategia del professore – in Europa. Scomparsi il senso di fastidio e disagio
di un’Italia affetta dal “mal d’Europa”, insofferente, pronta – appena
possibile – a disattendere impegni comuni e a deviare da strade condivise.
Niente più marachelle, dispetti o leggerezze. Ma profondo senso di
responsabilità.
Già, perché se a molti
l’Europa dello spread, delle
Merkel e dei Sarkozy sta antipatica, è proprio di più Unione (e di una diversa
Unione) che abbiamo bisogno. Di una azione fiscale comune (va in questo senso l’accordo
firmato non più di dieci giorni giorni fa), di una governance economica comune. Di una politica comune.
«Ora è il momento di
completare il mercato unico europeo – ha spiegato Monti in un’intervista al
Time (guarda)
– e di attivare politiche di crescita». Un imperativo, questo, su cui ha
concordato con Obama: «una crescita che può venire solo da riforme strutturali
in grado di stimolare la produttività e l’efficienza europee».
E intanto in Italia – un giorno sì e l’altro pure – si rischia di venire travolti da un fiume in piena di demagogia, di maldestro e malcelato rancore sociale, dove una dichiarazione, più o meno azzeccata, spesso mal compresa, riesce a catalizzare l’attenzione di tutti, azzerando ogni possibilità di un serio e costruttivo dibattito pubblico. Un paese che non sembra volersi lasciare alle spalle vecchie incrostazioni e vecchi stereotipi.
Ma per fortuna c’è chi
parla una nuova lingua, quella europea. Facendo un passo in avanti, uscendo da
quell’asfittico provincialismo che rischia di farci precipitare nel baratro.
Un perfetto esempio,
insomma, di quella ‘leadership europea’ che – da tempo – ci mancava.
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