venerdì 10 febbraio 2012

Tu vuò fa' l'europeo




Low profile e understatement. Due parole (anglosassoni) descrivono particolarmente bene lo stile del nostro Presidente del Consiglio Mario Monti, in patria come all’estero. Ma molto (forse troppo e in modo caricaturale) è stato detto della sobrietà dell’era del “loden”. Non è di questo che vogliamo parlare, ora. Quello che ci è piaciuto della visita di Monti negli States è l’immagine di un leader che ha, sì, a cuore il destino del proprio paese, ma che ragiona in termini europei. Parla, eccome, d’Europa, Monti. C’è l’Italia, ma è saldamente e fermamente collocata – nella strategia del professore – in Europa. Scomparsi il senso di fastidio e disagio di un’Italia affetta dal “mal d’Europa”, insofferente, pronta – appena possibile – a disattendere impegni comuni e a deviare da strade condivise. Niente più marachelle, dispetti o leggerezze. Ma profondo senso di responsabilità.

Già, perché se a molti l’Europa dello spread, delle Merkel e dei Sarkozy sta antipatica, è proprio di più Unione (e di una diversa Unione) che abbiamo bisogno. Di una azione fiscale comune (va in questo senso l’accordo firmato non più di dieci giorni giorni fa), di una governance economica comune. Di una politica comune. 

«Ora è il momento di completare il mercato unico europeo – ha spiegato Monti in un’intervista al Time (guarda) – e di attivare politiche di crescita». Un imperativo, questo, su cui ha concordato con Obama: «una crescita che può venire solo da riforme strutturali in grado di stimolare la produttività e l’efficienza europee».

E intanto in Italia – un giorno sì e l’altro pure – si rischia di venire travolti da un fiume in piena di demagogia, di maldestro e malcelato rancore sociale, dove una dichiarazione, più o meno azzeccata, spesso mal compresa, riesce a catalizzare l’attenzione di tutti, azzerando ogni possibilità di un serio e costruttivo dibattito pubblico. Un paese che non sembra volersi lasciare alle spalle vecchie incrostazioni e vecchi stereotipi.

Ma per fortuna c’è chi parla una nuova lingua, quella europea. Facendo un passo in avanti, uscendo da quell’asfittico provincialismo che rischia di farci precipitare nel baratro.
Un perfetto esempio, insomma, di quella ‘leadership europea’ che – da tempo – ci mancava.


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