Dovremmo, in quanto
italiani, ringraziare Roberto Benigni. Già perché se c’è un ambasciatore
d’Italia che è in grado – anche in questi tempi bui – di fare un elogio così
appassionato e vero al Bel Paese, be’, questo è proprio il grande comico e
attore toscano.
Dopo
un ingresso lento (ha le stampelle) ma non meno trionfale (gli tributano una standing
ovation), non potevano mancare –
prima di passare alla lettura del XXVI Canto dell’Inferno di Dante – i
riferimenti alla cronaca politica. Scoppiettanti: «chiedo scusa per
l’ingessatura ma purtroppo mi è venuta addosso una persona che in Italia ha
fatto un passo indietro», inizia, strappando fragorose risate al pubblico
presente
a questo momento celebrativo dei 150
anni dell'Unità d'Italia presso le istituzioni europee. E poi – mescolando
passato e presente, storia e attualità – parla dell’Italia. O meglio, ne fa
un’ode.
E
sfodera subito “l’arma” più potente, quella che tutto il mondo ci invidia, che
ci ha dato grandi soddisfazioni (e ce le darebbe tuttora, se solo sapessimo
farne tesoro): la cultura. Che, caso unico nell’umanità, è nata prima dello
stato. La Gioconda, il David, la cupola del Brunelleschi, ma anche la musica, l’affresco e
la prospettiva, e – ovvio – Dante: c’è tanto nelle parole di Benigni. Tutto il
trionfo di quell’eccellenza italiana che nei secoli ha invaso il mondo «che è
una gioia che mi prende il cuore e l’anima!».
«Anche
quando tutto era morte», un italiano, San Benedetto da Norcia (patrono
d’Europa) ha messo insieme due parole, “ora” e “labora”, rivoluzionando scienza, agricoltura, filosofia, poesia. Quando in
tutto il mondo era carestia e devastazione, gli italiani hanno aperto le porte
della modernità: oggi abbiamo lo spread alle stelle ma – senza uno stato e senza una lingua – abbiamo
inventato le banche, il credito, la cambiale (e «chi glieli va a richiedere i
soldi a Edoardo I d’Inghilterra che non ce li ha mai ridati!»). Ma anche la
modernità di Giotto, primo artista pagato per le sue creazioni o Boccaccio
intellettuale retribuito per scrivere saggi.
Ma
non è stata sempre e solo gloria. «Voi neanche potete immaginare quante ne
abbiamo passate», quanti saccheggi (Normanni e Lanzichenecchi), quanta
disgregazione («della repubblica romana, dell’impero»). «Pensate a Carlo Magno,
che in tempo di pace si è portato via mezza Roma, o a Napoleone, che in guerra,
ha razziato quanto poteva». E poi mille lacerazioni interne, contrasti e
minacce: «anche all’Unità, una cosa da non credere».
Ma,
qui sta il punto, ne siamo sempre venuti fuori. Perché per Benigni l’Italia non
è solo il paese del Rinascimento e del Risorgimento (e già non è poco) ma
soprattutto della resurrezione. «È un miracolo permanente».
Gli
applausi punteggiano tutto l’elogio, a sottolineare i passaggi più veri e più
intensi. Come se ogni italiano, ascoltandolo, riscoprisse cose – conosciute,
certo – ma forse troppo spesso dimenticate. E sommerse dalla miseria di oggi.
Può sembrare un atteggiamento da vecchia potenza in declino guardare in dietro
e consolarsi con le glorie del passato. Forse. Ma tutto ciò è nel nostro dna. E
fa bene parlarne. Per poter ripartire. Anzi, per risorgere.
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