Di fronte alle agghiaccianti scene di Firenze, ieri il mio pensiero è corso ad un film, visto solo poche sere prima. “Miracolo a Le Havre”, di Aki Kaurismaki, una pellicola che somiglia ad una poesia, di un candore quasi inverosimile. È la storia – ambientata nella cittadina affacciata sulla Manica – di Marcel Marx, (ex)scrittore e bohémien sulla sessantina. Una vita tranquilla, la sua, tra il lavoro di lustrascarpe, l’amore per una moglie (un po’mamma) e il bicchiere di bianco al bar del quartiere.
Fino
a che due eventi interrompono il regolare e scandito fluire della quotidianità:
la malattia (con “lieto fine”) dell’amata Arletty e l’incontro con una
ragazzino del Gabon, Idrissa, fuggito da un container di clandestini al porto.
Vuole raggiungere la madre a Londra, Idrissa. E Marcel farà di tutto per
aiutarlo. Innanzitutto lo protegge dai poliziotti che gli danno la caccia. E
poi – povero di soldi e ricco di fantasia e generosità – organizza un concerto
rock: i soldi ricavati sono proprio quelli che servono ad Idrissa per attraversare
la Manica e cavalcare un sogno.
E
anche il Commissario – un po’ burbero, sì, tutto intabarrato nei suoi abiti
cupi – è stanco di inseguire ed eseguire una giustizia troppo spesso miope e
così ci stupisce quando permette e copre la fuga del ragazzino. È il momento,
anche per lui, di disobbedire. Certo, questo è un film. Ma la cosa bella è che
di queste storie è piena anche la realtà. Il fatto è che non fanno notizia,
rispetto al frastuono mediatico provocato, invece, dagli eventi di violenza.
Per
esorcizzare il dramma avvenuto al mercato di Firenze, per non essere
sopraffatta dall’orrore, ho ripensato a questo film. Che racconta un’altra
storia. Un altro modo di vedere e soprattutto vivere l’immigrazione. Un altro
modo di rapportarsi con il diverso da sé, che è poi profondamente, intimamente
uguale a sé. Uguale in quanto parte di quella precaria ma splendida condizione
che è l’essere uomini e donne.
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