Eh sì, lo ammetto! Non ho
resistito – in queste ultime ore del 2011 – a creare il mio personalissimo (e
parzialissimo) blobbone fotografico. Qualche immagine, scelta con cura e
selezionata sulla scorta delle emozioni, di alcuni dei fatti che più mi hanno colpito
nei mesi scorsi. Molti li ho raccontati in queste pagine, altri avrei voluto farlo.
Nella speranza che l’anno
che viene regali a questo nostro pianeta qualche soddisfazione in più!
La “Primavera araba”
sconvolge l’assetto politico del Nord Africa e del Medio Oriente: prima è la
volta di Tunisia e Algeria, poi di Egitto e Libia. Uno dopo l’altro, cadono i
leader della regione: Ben Ali, Mubarak, Muammar Gaddafi e Ali Abdullah Saleh.
Occupy Wall Street e indignados: i nuovi movimenti mettono in discussione gli assetti dell’attuale
sistema socio-economico e Main street assedia il cuore pulsante del financialdistrict.
L’Euro e l’Ue ad un
passo dal baratro: convulse trattative ed estenuanti riunioni provano a salvare
il salvabile. La macchina Europa – per il momento – sembra rimanere in
carreggiata.
Dopo il vino solidale
(ricordate il progetto Asylon?),
ora è la volta dell’acqua solidale.
Può
una bottiglia d’acqua divenire un valido regalo di Natale? Sì, se è – come in
questo caso – colma di significati positivi. Stiamo parlando della speciale,
specialissima bottiglia d’acqua messa in vendita da Water.org, organizzazione
non governativa attiva in Africa, Asia e centro America per rendere l’acqua
pulita e i servizi igienici accessibili a tutti. Già perché ogni anno – e i
dati forniti da Water.org sono più che attendibili (provengono dai rapporti
ufficiali ONU) – 3.575 milioni di persone muoiono a causa di malattie provocate
dalla mancanza di acqua o dall’utilizzo di acque sporche.
E
per l’occasione, Matt Damon – co-fondatore, assieme allo scienziato Gary White, di Water.org – ha vestito i panni di Babbo Natale per convincere anche i più
piccoli a rinunciare al giocattolo must-have di stagione. In favore di una sana
bottiglietta di acqua. Il bravo attore (quello, per intenderci, di “Will
Hunting genio ribelle”, “Il talento di Mr. Ripley” e molti altri...) spiega,
infatti, che i proventi dell’acquisto di questa bottiglia andranno a finanziare
i progetti dell’organizzazione e permetteranno a molte persone di avere
finalmente accesso all’acqua pulita.
Insomma,
anche a “Chi più ne ha più ne metta” tira aria natalizia... meglio ancora se –
come in questo caso – solidale!
Ebbene sì, ci ho preso
gusto. Ci ho preso gusto a parlare dei (bei) film che mi è capitato di vedere
in questi giorni. Dopo “Miracolo a Le Havre” è la volta di “Almanya, la mia famiglia va in Germania”. Bello, bellissimo. Genere: “migration movie”. Segni particolari: forte e ironico. Ma anche
tenero.
Una
famiglia, originaria di uno sperduto villaggio dell’Anatolia, decide di
trasferirsi in Germania. A fare da apripista il padre, Hüseyin, protagonista
principale della storia, che per primo decide di andare in Almanya a lavorare come operaio, chiedendo poi il
ricongiungimento familiare.
Lo
spettatore rivive la sua storia, e quella di tutta la famiglia, grazie ad un
lungo flashback: voce narrante,
la nipote di Hüseyn, Canan, che racconta al piccolo (e ignaro, molto tedesco e
poco turco) Cenk (oramai la terza generazione) la storia di famiglia. Tanti i
temi trattati, con garbo e non senza ironia, da Yasemin e Nesrin Samdereli
(rispettivamente alla regia e alla sceneggiatura), due sorelle tedesche di
origine, ça va sans dire,
turca!
C’è
la questione della differente percezione delle origini da parte dei giovani
della famiglia, nati in Germania e, di fatto, tedeschi. Ci sono i sentimenti
contrastanti in merito all’acquisizione della cittadinanza del paese ospitante:
Hüseyin – poco convinto e molto titubante – rispetto ad un pezzo di carta che
sente estraneo da sè; la moglie che, invece, è al settimo cielo – quasi
emozionata – nel divenire “ufficialmente” tedesca.
E,
infine, c’è la volontà di Hüseyin di recuperare in parte quelle origini che non
tollera siano ignote ad alcuni dei suoi familiari. Come? Con una vacanza in
Turchia: una vacanza che sarà un viaggio indietro nel tempo per chi la patria
l’aveva conosciuta, una scoperta invece per chi non ci era mai stato. Tutti
insieme. Già perché in questa commedia c’è, eccome, la famiglia, grande, vera,
a volte brontolona ma in fondo unitissima. E, come a chiudere un cerchio,
Hüseyin muore proprio lì, accanto ai suoi cari e nel luogo da cui – tanti anni
prima – si era staccato, andando in cerca di fortuna in Almanya.
Di fronte alle agghiaccianti scene di Firenze, ieri il mio pensiero è corso ad un film, visto solo
poche sere prima. “Miracolo a Le Havre”, di Aki
Kaurismaki, una pellicola che somiglia ad una
poesia, di un candore quasi inverosimile. È la storia – ambientata nella cittadina
affacciata sulla Manica – di Marcel Marx, (ex)scrittore e bohémien sulla
sessantina. Una vita tranquilla, la sua, tra il lavoro di lustrascarpe, l’amore
per una moglie (un po’mamma) e il bicchiere di bianco al bar del quartiere.
Fino
a che due eventi interrompono il regolare e scandito fluire della quotidianità:
la malattia (con “lieto fine”) dell’amata Arletty e l’incontro con una
ragazzino del Gabon, Idrissa, fuggito da un container di clandestini al porto.
Vuole raggiungere la madre a Londra, Idrissa. E Marcel farà di tutto per
aiutarlo. Innanzitutto lo protegge dai poliziotti che gli danno la caccia. E
poi – povero di soldi e ricco di fantasia e generosità – organizza un concerto
rock: i soldi ricavati sono proprio quelli che servono ad Idrissa per attraversare
la Manica e cavalcare un sogno.
E
anche il Commissario – un po’ burbero, sì, tutto intabarrato nei suoi abiti
cupi – è stanco di inseguire ed eseguire una giustizia troppo spesso miope e
così ci stupisce quando permette e copre la fuga del ragazzino. È il momento,
anche per lui, di disobbedire. Certo, questo è un film. Ma la cosa bella è che
di queste storie è piena anche la realtà. Il fatto è che non fanno notizia,
rispetto al frastuono mediatico provocato, invece, dagli eventi di violenza.
Per
esorcizzare il dramma avvenuto al mercato di Firenze, per non essere
sopraffatta dall’orrore, ho ripensato a questo film. Che racconta un’altra
storia. Un altro modo di vedere e soprattutto vivere l’immigrazione. Un altro
modo di rapportarsi con il diverso da sé, che è poi profondamente, intimamente
uguale a sé. Uguale in quanto parte di quella precaria ma splendida condizione
che è l’essere uomini e donne.
Si è conclusa ieri mattina
a Durban – dopo 14 giorni di lavoro e 20 ore ininterrotte di trattative – la
Climate Change Conference 2011, il consesso delle Nazioni Unite interamente
dedicato ai problemi climatici. E alle soluzioni per risolverli. Come al solito,
tante le questioni sul tappeto, e la conferenza ha riproposto i principali temi
in fatto di energia, inquinamento e sostenibilità.
Proprio
questa mattina il The Guardian
propone un interessantissimo articolo dal titolo accattivante: “Può il sole
del deserto dare energia al mondo?”
Niente di nuovo, della proposta si è già sentito parlare, ma questo articolo di
Leo Hickman spiega davvero bene le opportunità e le potenzialità che possono
venire dalla sabbia infuocata del deserto.
Il
sole che picchia sulle aree desertiche, infatti, potrebbe non solo generare
elettricità in Medio oriente e Nord Africa, ma anche in Europa, eliminando l’uso
dei combustibili fossili. E Hickman spiega anche i precedenti di questa “luminosa
idea”: addirittura nel 1913 un ingegnere americano, Frank Schuman, propose un
progetto che – con un gioco di sole, acqua e specchi – avrebbe prodotto
energia. Ad interrompere il tutto, la prima guerra mondiale. E più recentemente
il tedesco Gerhard Kniesche – già negli anni ’80 – scoprì che in appena sei
ore, i deserti sparsi per il mondo, ricevono dal sole più energia di quella che
l’umanità consuma in un anno. La conseguenza? Una piccola frazione del Sahara
potrebbe liberarci da emissioni nocive.
Ecco
la proposta, in concreto: si chiama “Desertec”, e mira a fornire, entro il
2050, il 15% dell’elettricità europea attraverso un vasto network di impianti solari ed eolici che si estendono
lungo le regioni medio-orientali e nord africane, collegato al vecchio
continente attraverso cavi di trasmissione.
Liquidato
da alcuni come progetto ai limiti dell’utopia, il piano – che vede capofila la
Germania – sembra invece essere perfettamente realizzabile. E negli ultimi
tempi è cresciuto l’impegno e il supporto da parte di compagnie e soggetti
interessati, fino alla creazione, per mano di un consorzio internazionale,
della “Desertec Industrial Initiative (Dii)”. E anche gli impulsi della politica sembrano andare in questo
senso, soprattutto dopo che la Germania ha deciso di abbandonare un’altra
(discutibilissima) fonte di energia: il nucleare.
l'articolo del The Guardian
Proprio
la Dii ha confermato che il prossimo anno verrà realizzata la prima parte del
progetto, attraverso la costruzione di una prima installazione in Marocco. L’obiettivo
di questa azione pilota è quello di dimostrare le benefiche conseguenze del
piano. Certo, la crisi economico-finanziaria non aiuta, ma è opportuno
convincersi che proprio su questo settore – cioè quello delle rinnovabili e dei
sistemi alternativi di produzione dell’energia – sarà più che mai opportuno
investire.
Chi
paga il progetto? Il finanziamento dovrebbe avvenire da parte della Banca
mondiale, con il coinvolgimento di alcuni istituti bancari tedeschi, ma si
vocifera anche su un impegno dell’Ue, con sovvenzioni appositamente destinate.
Un’altra questione solleva qualche dubbio: alcuni vedono in Desertec il rischio
di un larvato neocolonialismo: in un ciclo per cui il passato sembra ritornare,
di nuovo le risorse dei paesi extra-europei vengono sfruttate dagli eredi dei
vecchi colonialisti. Niente affatto, spiegano dalla Dii: il progetto si
realizzerà all’insegna di processi cooperativi, a vantaggio di tutte le parti.
A vantaggio di Europa e Medio Oriente, ma anche del Nord Africa. Ma soprattutto
– aggiungiamo – a vantaggio dell’intera umanità, che potrebbe finalmente
cominciare ad affrancarsi da obsolete e tossiche fonti di energia. Here comes
the sun...
Ce lo aspettavamo e ne
avevamo già parlato. Nelle settimane scorse abbiamo scritto, abbondantemente,
del difficile rapporto tra il Regno Unito e l’Unione europea (Niente Euro siamo inglesi – Secessione?). E lo strappo è arrivato: David Cameron, nella convulsa
nottata di ieri, ha optato per una rottura difficilmente sanabile. Ed ora è
braccio di ferro. Braccio di ferro con l’Unione del rigore, impersonata da
Nicholas Sarkozy e Angela Merkel, che sono riusciti, dopo estenuanti trattative
durate tutta la notte, a far accettare a 26 Stati una nuova disciplina fiscale,
studiata proprio per avere bilanci più sani rispetto a quelli che hanno
condotto l’Europa ad un passo dall’implosione. 26 su 27, appunto, perché, alla
fine, solo la Gran Bretagna ha deciso di tenersi fuori.
Ma andiamo
con ordine. Cosa ha causato la spaccatura tra il Regno unito e il resto
dell’Ue? Il veto, posto da David Cameron. O meglio, i veti, tutti di fatto
volti a lasciare mano libera al mercato dei servizi finanziari della City di
Londra. La principale richiesta? Quella di condizionare al criterio
dell’unanimità ogni decisione relativa a regole più stringenti per la finanza,
dove unanimità sta – di fatto – per possibilità di veto. Nella difficile
decisione di Cameron ha di certo pesato, e non poco, il grande euroscetticismo
degli ultimi tempi, manifestato anche dai parlamentari dello stesso partito conservatore.
E la
scelta del Primo Ministro spiazza gli stessi inglesi. Scetticismo è espresso,
oggi, dai quotidiani britannici. Michael White, dal Guardian, si chiede: will it be splendid isolation or miserable? “Sarà uno splendido o un miserabile isolamento?”,
parafrasando con qualche ironia la nota espressione con cui la storia descrive
l’isolamento cercato dalla Queen’s Land alla fine dell’800. Mentre l’Independent scrive così: “David Cameron ha
drammaticamente posto il veto alle modifiche dei Trattati dell’Ue, rischiando
l’isolamento politico e provocando il più grande scossone dell’Europa negli
ultimi tempi”.
Con un tasso di disoccupazione all'8,5% (fonte ISTAT); con un debito pubblico pari a 1.911,807 miliardi di euro (fonte Banca d'Italia), con un tasso di occupazione dei laureati fermo al 76,6%, all'ultimo posto tra i Paesi europei e ben al di sotto della media (fonte 45° rapporto CENSIS); con un PIL che aumenta solo dello 0,3 per cento sul periodo precedente, dopo due trimestri di sostanziale stagnazione (fonte Banca d'Italia); con 38 imprese al giorno (4 in più del
2010) uscite dal mercato tra gennaio e settembre 2011 (fonte Unioncamere); con una domanda interna debole;
con l'Euro a un passo dal fallimento e molto altro ancora,
il fatto che Mario Monti vada o non vada a Porta Porta, francamente, non è un problema.
Dmitry Vrubel, Mein Gott hilf mir, diese tödliche Liebe zu überleben
Campagna Benetton 2011
Il politically
uncorrect va di moda, a quanto
pare. Avrete sicuramente notato – circola oramai da un paio di settimane – la nuova campagna pubblicitaria del gruppo Benetton, dove una sapiente opera di
photo-shop rende possibile l’impossibile: Barack Obama che bacia il leader
cinese Hu Jintao, ma anche il presidente del Venezuela Hugo Chavez, mentre il
primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu bacia il palestinese Mahmoud
Abbas. E, dulcis in fundo, un
bacio unisce Papa Benedetto XVI e l’Imam del Cairo Mohamed Ahmed el-Tayeb
(immagine poi ritirata a seguito delle proteste del Vaticano). L’unica, a dire il
vero, più verosimile (e, per questo meno, provocatoria) è quella che raffigura
Nicholas Sarkozy in atteggiamenti, per così dire, confidenziali con Angela
Merkel: li abbiamo visti spesso scambiarsi gesti affettuosi (bacetti, abbracci e
risolini), certo meno impegnativi di quelli raffigurati nei maxi cartelloni del
marchio italiano. Miracoli del digitale, insomma, e di colpo la campagna ideata da Fabrica, (communication research centre di Benetton, fondato, tra gli altri, da Oliviero Toscani) annulla ogni divisione politica e religiosa e – sullo slancio del concetto “unhate” – il gruppo promuove, grazie ad un’apposita
fondazione, una serie di iniziative in favore della tolleranza.
Ma
l’idea pubblicitaria non è poi così originale e i precedenti, illustri, non
mancano: anni fa – precisamente nel 1991 – proprio Oliviero Toscani immortalò, sempre
per Benetton, il bacio tra due giovani: fin qui niente di strano, se non per il
fatto che lei era una monaca, lui un prete.
Campagna Benetton 1991
E – ancora prima, è la storia a
consegnarci un’immagine – per così dire – inusuale, questa volta non
photoshoppata né artefatta ma vera più del vero: il bacio, secondo l’usanza
russa, tra Leonid Breznev e Erich Honecker, rispettivamente Presidente
dell’Unione sovietica e della Germania dell’est. Immagine datata 1979 e simbolo
della allora imperante guerra fredda. Foto poi ripresa dall’artista russo
Dmitry Vrubel e dipinta sull’allora (in piedi) Muro di Berlino. Con la frase: «Dio mio, aiutami a
sopravvivere a questo bacio della morte».
il bacio tra Leonid Breznev e Erich Honecker, 1979